L’Ultimo Giorno della Terra

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Che ci possiamo fare.

L’ultimo giorno della Terra la sveglia è suonata alle sei e mezza, stanza da letto immersa nel buio, sempre nel buio; la luce bluastra della televisione illuminava fiocamente il salotto, le immagini tetre si rispecchiavano sul bordo trasparente della tazzina da caffè.

Il sonno ancora intorpidiva il corpo stanco e pallido, ma tra un sorso alla bevanda calda e un morso ad una galletta insipida, si trovava il tempo per cercare di assimilare le notizie provenienti dal mondo spezzato.

La voce del giornalista in televisione era dura, la Terra è condannata; poi la trasmissione si interrompeva per la pubblicità di qualche profumo e si dimenticava tutto con una sgrullata di spalle.

Bisognava andare a lavoro.

Che ci possiamo fare.

***

L’ultimo giorno della Terra si andava a scuola, mascherina bianca su bocca e naso, occhiali per proteggere la vista; appena si usciva da casa, una coltre di nube scura e pesante abbracciava il tuo corpo, minacciando di avvelenarne ogni cellula.

Entrati nell’edificio ci si toglieva di dosso ogni capo protettivo, sbattendo le palpebre più volte per abituare la vista alla luce al neon improvvisa.

Luce artificiale.

“In classe, in classe,” borbottava il bidello, dando colpetti decisi al muro con un pugno, “devo chiudere le porte.”

In aula i ragazzi si sedevano ai banchi, spettegolando di qualche ragazzo di quinto e della sua ultima bravata in palestra; qualcuno mandava messaggi sul cellulare, un altro like, un altro cuore sotto una foto di una foresta in fiamme.

“Buongiorno,” l’insegnante entrava in classe salutando, posava la borsa sulla cattedra.

Ora di matematica.

Che ci possiamo fare.

***

L’ultimo giorno della Terra era come tanti altri, immerso nel buio dell’ignoranza e dell’egoismo.

Era un giorno come tanti altri.

Che ci possiamo fare.

Racconto Breve – “La Tuta”

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Il mio racconto La Tuta fa parte della raccolta Futuro Prossimo. Potete prendere il pdf al link e leggere le altre storie di tutte le persone che hanno partecipato al gioco letterario!


La Signora Agnes accese le luci del salotto alle sette in punto: lo schermo olografico della televisione si attivò, trasmettendo il meteo come da programma. In alto a destra, dei piccoli numeri segnavano la data del giorno, 23 Febbraio 2054. Diede un veloce sguardo alla nuvola 3D che prometteva pioggia, per poi andare nella cucina ed affrettarsi a scaldare un paio di fette di pane da toast. Sbuffò quando vide che nella confezione, ne erano rimaste solo tre. Chi aveva fatto la spesa l’ultima volta? Roberto? Elina? Possibile che si fosse dimenticata proprio del pane? Le mise tutte nella tostiera e poi si avvicinò alla finestrella della cucina: scostò le tende, osservando la fitta nebbia arancione che inglobava tutto il vicinato. Tanto tempo fa quel quartiere scoppiava di vita la mattina: scoiattoli nei giardini, merli canterini, corvi e cornacchie…

“Buongiorno,” bofonchiò Roberto, il figlio minore. Aveva solo tredici anni eppure era molto alto per un ragazzo della sua età, tanto che molti lo scambiavano per un ragazzo del liceo. Andò verso il frigo e prese la bottiglia di succo di frutta naturale al 10%, per poi versarsi un bicchiere di aranciata slavata. Non si trovava di meglio in giro. Preso il bicchiere, si sedette sullo sgabello che dava sull’isola in cucina, sbadigliando sonoramente.

“Buondì,” rispose Agnes, allontanandosi dalla finestra. La tostiera scattò, facendo sbalzare fuori il pane pronto per essere gustato. “Vuoi?” Chiese la donna, mettendo le fette su un piatto.

Roberto sbadigliò di nuovo, annuendo. Agnes sospirò, posandogli il piatto davanti, “lasciane una a tua sorella, sono finite.”

“Cosa sono finite?” Squittì una vocina: Elina era appena arrivata, scendendo le scale due a due. Sembrava più sveglia del fratello, con il cellulare perennemente in mano e i pantaloni della tuta rosa che le coprivano le gambe secche. Aveva quindici anni ed era nel pieno dell’adolescenza. Diede una spintarella a Roberto, sedendosi al suo fianco.

“Buongiorno,” sospirò Agnes, “il pane, è finito, dovrò andare a fare la spesa.”

Elina fece spallucce, guardando la madre con sguardo interrogativo, “e quindi? Noi usciamo tutti i giorni per andare a scuola, dov’è il problema?” Si mise il cellulare in bilico sulle cosce, così da avere le mani libere; prese una fetta di pane ed un coltello, immergendolo nella crema di cioccolato.

Agnes si strinse le braccia intorno al corpo, “il meteo dice pioggia.”

“Anche oggi?” Bofonchiò Roberto, ancora perso nel dormiveglia, “è così da una settimana.”

“E allora? Ti metti la tuta e il casco, lo facciamo sempre,” Elina non comprendeva la preoccupazione del resto della sua famiglia. Mangiò con gusto il pane, un occhio sul cellulare per controllare i social network, per nulla impressionata dal meteo. “Non prendiamo il bus allora?”

“No, vi accompagno io,” rispose la donna, andandosi a vestire in camera sua, “preparatevi che usciamo subito.” Fece le scale con calma, persa nei suoi pensieri: odiava fare la spesa, non era un segreto. Odiava uscire di casa per fare scorta di cibo e bevande, perché il solo pensiero di mettere il naso fuori la rendeva nervosa. Certo, c’era il servizio Consegne&Spedizioni della città che ti procurava lo stretto necessario, ma era relegato solo per determinate marche di prodotti; per di più, trovandosi la casa di Agnes fuori dal centro, le capitava di attendere anche per più di due giorni prima che il fattorino arrivasse con la sua spesa. No, non poteva fidarsi di quel servizio, non sempre.

Arrivata in camera, tirò fuori dall’armadio la sua tuta, con tanto di casco incluso: l’aveva comprata su internet poco dopo la nascita di Roberto, quando divenne obbligatoria per uscire all’aperto. Quante persone erano morte prima che si arrivasse a quella soluzione temporanea? Il mutamento del clima era in corso da anni, lo sapevano tutti, eppure facevano finta di niente. Accadde l’inevitabile: le persone morivano come mosche, avvelenate con lo smog presente nell’aria, bruciava la pelle, gli occhi; la pioggia acida cadeva incessante per giorni, corrodeva i campi e distruggeva le culture; le temperature estive e invernali erano imprevedibili, mortali.

Agnes accarezzò la tuta inutilizzata di Tobias, incapace di trattenere una lacrima solitaria che le rigò il viso. Tobias fu una delle tante vittime di quegli anni: poco dopo la nascita di Roberto, fece in tempo a tenerlo fra le sue braccia un solo giorno. Lei ed i suoi figli erano vivi per miracolo: corpi diversi, reazioni diverse o forse fu solo fortuna, chissà. Fatto sta, Agnes aveva cresciuto Roberto ed Elina da sola, attenta ad essere sempre coperta dalla tuta. Quando indossata, diveniva tutt’uno con il corpo, permettendo ogni tipo di movimento: durante gli ultimi anni erano state prodotte anche di colori diversi, con tanto di slogan per fare pubblicità all’azienda che le fabbricava in massa. Piuttosto che curare il pianeta Terra, la razza umana aveva deciso di continuare a sporcare e sfruttare ogni singola risorsa a sua disposizione, adattandosi al nuovo clima.

Con la tuta.

Le piangeva il cuore sapere che i suoi figli non avrebbero mai visto il cielo limpido e azzurro una mattina di primavera; non avrebbero mai udito il cinguettio degli uccellini, né il gracchiare dei corvi o delle cornacchie; non avrebbero mai provato il calore sulla pelle passeggiando sotto il Sole.

Si guardò allo specchio, fissando il suo riflesso infilato nella tuta color onice, per poi nascondere la testa nel casco; scese le scale, attendendo che i ragazzi la raggiungessero vestiti come lei, con le borse in spalla. “Accendete i caschi,” ordinò Agnes, aprendo la porta che dava su un piccolo ingresso chiuso: qui, avrebbero atteso fino alla completa depressurizzazione, prima di poter uscire nel giardino deserto. Guardò i suoi due ragazzi: in quelle tute, sembravano due piccoli alieni pronti ad esplorare un pianeta inospitale.

Depressurizzazione completata, avvisò la voce meccanica nei loro caschi.

Potevano uscire.

Non erano più umani.

#Heatwave, l’ondata di caldo che ha sciolto il mondo

L’ondata di caldo anomalo che si è abbattuto sull’Europa pare che stia per terminare: o meglio, dove fa caldo di norma continuerà a farlo, mentre i gradi in nord Europa scenderanno un po’. Ma va tutto bene, no? Mica ci sta un problema di surriscaldamento globale, nah, sono tutte cavolate del web. Sono fake news, non c’è stato un caldo anomalo ieri, ma che cosa dite.

#Heatwave

Diciamo che le temperature sono impazzite:

  • Parigi ha toccato i 42° di pomeriggio;
  • Londra è arrivata a 38°;
  • sia in Olanda che in Belgio le temperature sono arrivate a 40°.

Edimburgo ha raggiunto i 28° il che non sembrerebbe chissà che cosa se confrontato con le altre città, ma è pur sempre un problemone. In Scozia si sono sfiorati i 30°, quando la temperatura media estiva sarebbe intorno ai 18° (se arrivasse a 20° si farebbe festa rara).

Tutti quei numeri che ho scritto sopra, non sono normali. Sveglia, mondo.

Mi veniva un po’ da ridere a vedere queste persone in preda al panico qui in UK morire di caldo, quando un giorno in gita a Roma credo di aver sentito anche 45° e oltre. Ma anche di notte a cercare di dormire nel lontano caldo record del 2003, quando a soli 10 anni credo di aver capito cosa significasse boccheggiare.

C’è da dire però, che queste persone non sono abituate al caldo estremo come magari potremmo esserlo noi. Sia chiaro, io ho sempre detestato il caldo, ma sapevo che in estate prima o poi sarebbe sempre arrivata la mazzata. Se vivi in certi luoghi sei abituato all’idea, incrociando le dita che non ti faccia pentire di essere nato (sì).

I paesi freddi non sono attrezzati ad affrontare la calura estiva come quelli caldi. I bus sono dei forni su quattro ruote, la case scure e con il tetto spiovente sono fatte apposta per trattenere il calore all’interno; non esistono i nasoni in giro per i parchi, quindi niente fontanelle in città dove poterci ficcare la testa e rinfrescarti.

Non parliamo poi se si vuole aprire una finestra di sera! Zanzare ovunque assetate di sangue, finendo per lanciare ciabatte in giro per le stanze sperando di beccarle una volta per tutte. No, non ci sono le zanzariere, o per lo meno nel mio quartiere sembrano essere un optional radical chic: qui in casa abbiamo messo una rete da appendere davanti alla finestra, più inutile che altro. Da fuori pare un velo di una sposa fantasma.

“Fa freddo in Scozia” – Qualcuno parlando del freddo della Scozia che non c’è.

Rappresentazione  chiara del nostro mondo.

Eppure basterebbe che i grandi potenti della Terra mettessero da parte le loro avidità da piccoli uomini per pensare al bene comune una volta per tutte. Viviamo su questo puntino blu perso in un vasto universo sconosciuto e che ci facciamo?

Lo facciamo diventare un accendino.

I poli si sciolgono, tra un po’ andremo al mare in Islanda a fare castelli di sabbia in bikini. Gli Oceani diventeranno brodi primordiali dove cucinarci la zuppa, l’aria irrespirabile.

Come si dice in islandese, siamo fregati? 

Polvere

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“Secondo i miei calcoli, dovremmo trovarci nei pressi della vecchia città di Seattle, Nord America.”

“Dici? Vedo solo sabbia scura. Qualche sasso forse.”

Tratto da Polvere, Oltre Un Punto Blu

Sono passati 1000 anni da quando l’essere umano ha abbandonato per sempre la Terra, il suo pianeta d’origine: una spedizione di giovani ragazzi è tornata per visitarla. Leggilo qui: Oltre Un Punto Blu.

PROMO: Leggi “Oltre Un Punto Blu”!

Promozione

Sì, è tutto vero: per cinque giorni sarà possibile scaricare gratuitamente la mia raccolta di storie da Amazon! La promozione inizia venerdì 20 luglio e  finirà martedì 24 luglio! 🙂 Ovviamente, è rivolto a coloro che usufruiscono del servizio Kindle Unlimited: ho iniziato la prova free ed è veramente ben fornito, ve lo consiglio! Portarsi dietro i libri da leggere non è mai stato così facile… Ho rivalutato gli e-book, io, amante del cartaceo!

Se non sapete ancora di cosa si tratta, potete trovare “Oltre Un Punto Blu – Raccolta di Storie di Fantascienza”  cliccando qui: https://www.amazon.it/dp/B07C226YHB

Presente, passato, futuro: si parla di alieni, di pirati spaziali, di macchine del tempo, di esplorazioni ma anche di gioie e di dolori, sentimenti così tanto umani eppure così lontani dal nostro piccolo puntino blu che conosciamo bene. Non abbiate però paura, perché possiamo raggiungere questi luoghi inesplorati e visitarli come turisti spaziali: saltate su questo piccolo razzo ed iniziamo!

Ma da dove spunta fuori questa raccolta?

La raccolta è composta da 17 storie brevi, scritte in origine per partecipare ad alcuni contest online di scrittura creativa della pagina Facebook FanWriter.it, tra il 2016 e il 2017. Non avendo mai scritto nulla di originale e con un tema in comune, mi è stato di grande aiuto, decidendo dopo varie pressioni di sistemarle e pubblicarle in un piccolo volume unico.

La Fantascienza non è fra i generi dei più popolari, ma a mio parere è uno dei migliori per poter denunciare problemi legati alla nostra società senza essere troppo espliciti; è il miglior genere per trasmettere un messaggio, raccontare il nostro futuro a colpi di what if (e se…?).

E se un giorno colonizzassimo Titano? E se l’uomo si fondesse tutt’uno con le macchine? E se abbandonassimo la Terra, torneremmo indietro per curarla, rifarla nostra? Dove potrebbe mai finire la nostra umanità in mezzo a tanta paura e violenza?

E quindi?

Quindi dico a te, che sei arrivato qui per caso o che mi segui: se hai voglia di volare via lontano, lontano su di un piccolo razzo fra le stelle, questa è l’occasione giusta. Andare oltre non è mai la scelta sbagliata, ma l’inizio di una grande avventura…

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Indifferenti

 

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Quando non ci fu più nulla da distruggere, gli Yoxindiani offrirono ai poveri superstiti una nuova casa…

Si era svegliata presto quella mattina, per essere sicura di aver preparato tutto l’occorrente per la partenza: la valigia nera piena di graffi, la borsa a tracolla con la fascia mezza mangiucchiata dal vecchio cane Miko, il giaccone con le mille tasche per avere tutto a portata di mano. Il passaporto era in regola, aveva controllato la data di scadenza almeno una dozzina di volte; sul tesserino sanitario, c’erano scritte in ordine cronologico tutte le vaccinazioni obbligatorie per poter vivere sul pianeta Yox; la foto che la rappresentava su entrambi i documenti era recente e le era costata più di cinquanta crediti farla, ma sapeva che ne sarebbe valsa la pena.

Adesso che se ne stava in fila in una coda di centinaia e centinaia di persone disperate come lei, l’ansia stava cominciando a salire alle stelle; si mangiucchiava il labbro inferiore di continuo, giocando distrattamente con un lembo di una manica del giaccone. In lontananza, dietro il posto di blocco, l’aspettava una nave spaziale immensa, grande tanto quanto un grattacielo: l’Excelsior, una delle più grandi mai costruite nella storia dei viaggi interstellari. Ovviamente, era stata progettata insieme agli Yoxindiani, gli abitanti del pianeta Yox: ne era passato di tempo dal primo contatto alieno! Gli Yoxindiani erano sembrati degli alieni pacifici, nonostante il loro aspetto minaccioso: alti due metri, ricordavano degli scarafaggi, con quelle loro lunghe antenne e zampette munite di artigli. Dotati di due paia di occhi neri e lucidi e di una mandibola, erano tutto fuorché rassicuranti. Guardò verso il posto di blocco, dove gli Yoxindiani avevano adibito degli sportelli per scansionare gli umani da capo a piedi: uno di loro leggeva i documenti, l’altro si limitava a schioccare le mandibole ritmicamente.

Rabbrividì, sapendo che in quel momento lo Yoxindiano stava parlando con l’uomo davanti a lui: comunicavano telepaticamente, traducendo la loro lingua in quella dell’interlocutore di turno. Non per questo, le lingue non le studiava più nessuno sulla Terra. Le venne da ridere a quel pensiero, come se qualcuno studiasse ancora qui! C’era stata l’Ultima Grande Guerra che aveva messo in ginocchio l’economia mondiale, mandando in fumo i sogni di milioni di giovani come lei: bisognava stare attenti ad uscire di casa per non essere colpito dai proiettili o dai gas tossici. Internet era stato censurato, piccoli uomini erano stati innalzati a dei in terra, acclamati fino al giorno in cui vennero sconfitti anche loro. Politici, pensò, fatti di carne e sangue come tutti. Gli alieni rimasero in disparte a guardare come i diversi paesi giocarono a farsi a pezzi a vicenda; poi, quando non ci fu più nulla da distruggere, gli Yoxindiani offrirono ai poveri superstiti una nuova casa.

Yox.

Si grattò il naso per un attimo, tornando a giocare con il lembo del giaccone. Faceva freddo, tanto che delle piccole nuvolette di condensa si alzavano dalla lunga fila, con le persone strette strette fra loro; le ricordarono le colonie dei pinguini che tanto tempo prima abitavano il Polo Sud.

“No, vi posso spiegare,” un uomo allo sportello sbatté entrambi pugni sul bancone, cercando di contenere la rabbia che gli faceva tremare la voce; accanto a lui, c’era una bambina che avrà avuto quattro o cinque anni ed osservava l’alieno con la testina reclinata all’indietro. “Non ho avuto il tempo di rifare i documenti,” continuò l’uomo, “costano moltissimo le foto, vi giuro che sono io quello lì e questa è mia figlia, c’è scritto! Potete leggerlo nella mia mente!”

L’alieno addetto ai documenti si guardò con il suo vicino, poi prese il pezzo di carta e lo gettò in un inceneritore lì accanto.

Fece un segno di no con la testa.

L’uomo non si mosse, sbattendo i pugni con più forza sul bancone. “Non potete! Vi prego! Devo passare!”

“Papà?” La bambina tirò il padre per la tasca dei pantaloni, spaventata. L’alieno adesso si stava avvicinando, rizzando le antenne e gli artigli.

A quel punto, l’uomo prese la figlia in braccio, allontanandosi con un’espressione sconvolta in viso; guardò prima gli alieni, poi l’Excelsior, poi sua figlia.

“Ti vuoi sbrigare?!” Sbottò la donna che lo seguiva, “c’è una fila di gente qui!”

Senza poter dire altro, l’uomo si dileguò, degnando nessuno di uno sguardo.

La donna che aveva appena parlato commentò stizzita con un finalmente era ora, prima di avvicinarsi con il marito e valigie al seguito. Adesso che si era avvicinata allo sportello riusciva a vederla meglio: indossava degli abiti succinti ma di buona fattura, roba che non trovavi tutti i giorni ormai. Non ci mise troppo a passare il controllo, ovviamente. Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo: quella donna era una dei pochi ricchi rimasti, i suoi documenti erano sicuramente perfetti.

Le ci vollero altri venti minuti prima di giungere allo sportello: una coppia di donne venne portata via di peso perché non avevano dichiarato i tre pacchetti di sigarette trovati nelle loro tasche dei jeans; un altro uomo tentò di correre verso l’Excelsior, prima di stramazzare a terra, colpito da una guardia Yoxindiana; una famiglia dovette partire lasciandosi dietro zii e cugini. C’era così tanto dolore in quel luogo che doveva rappresentare la speranza e la rinascita, eppure questo non scoraggiava le persone a tentare di passare i rigidi controlli alieni.

Era il suo turno.

Timidamente camminò in avanti, con una mano stretta intorno al manico della valigia e l’altra con i documenti in bella vista.

“Buongiorno,” disse piano, porgendo le carte all’alieno.

Salve, umana.

Rabbrividì nel sentire la voce fredda e stridula dello Yoxindiano risuonare nella sua testa: era come se qualcuno le stesse entrando nel cervello, spostando ricordi ed emozioni, facendosi strada tra sogni e paure.

Si sentì nuda.

Nessuna famiglia?

“No,” rispose ad alta voce, sentendosi stupida, visto che l’alieno già doveva sapere la risposta.

L’alieno le ridiede le carte e le fece un cenno di andare.

“Grazie,” disse, affrettandosi a raggiungere la pedana della nave spaziale: la testa le girava, sentendosi svuotata da ogni emozione.

Non provava più nulla.

Si girò per guardare un’ultima volta la lunga fila di migranti come lei, in attesa di conoscere il loro destino; dietro la recinzione in ferro, lontano dagli sguardi degli Yoxindiani, c’erano l’uomo e la bambina che aveva visto prima allo sportello. L’uomo si era poggiato contro la recinzione, fissando l’Excelsior con occhi vitrei; la bambina, disegnava con un pezzo di legno bruciato sulla polvere a terra.

Ma non c’era pietà, né tristezza per loro, solo tanta indifferenza.

Sorrise, riprendendo a camminare sulla pedana.

Yox era la sua nuova casa.

 

Il Sistema

 

Sistema
Il tuo futuro, la tua famiglia, la tua vita. Il Sistema sei tu.

“Non posso assumerla, non ci posso fare niente.”

“Ma, mi scusi, ha visto che curriculum? Cosa c’è che non va? Ho lavorato nel migliore degli ospedali su Marte appena uscita dall’università, sono stati cinque anni dove ho dato tutta me stessa, nessuno si è mai lamentato!”

“Senta, capisco la situazione, ma ripeto che non posso assumerla. Il suo curriculum è perfetto, ma non essendo iscritta sul Sistema, non posso prendermi questa responsabilità.”

Il Sistema, quel maledettissimo Sistema; Nova avrebbe pagato oro pur di farlo sparire dalla faccia della terra. Era stato inventato nel lontano 2009, quando i social network stavano invadendo le vite di milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Dopo quasi un secolo, nell’anno 2107, si era insinuato così a fondo nella società che ormai non potevi muoverti da nessuna parte se non eri iscritto su di esso. Era diventato così indispensabile che veniva richiesto anche per ottenere il più semplice dei lavori: non potevi nemmeno portare un caffè. Nome, cognome, data di nascita, sesso, preferenze, tutto doveva essere scritto e condiviso nel web. Nova sapeva che era un grande rischio continuare la sua vita da sconnessa, ma le piaceva il senso di libertà che le garantiva la sua privacy: sua madre e suo padre erano stati degli sconnessi per tutta la loro vita e Nova non intendeva cambiare, a costo di non trovare lavoro.

L’uomo dietro la scrivania sospirò, fingendo della compassione. “Su Marte non le hanno mai chiesto di iscriversi al Sistema?”

Nova scosse la testa, stringendosi nervosamente le mani; guardò il suo curriculum sparire davanti ai suoi occhi, cancellato dal computer olografico dell’uomo. Maledizione! Tanti saluti al posto di lavoro. “No, non c’è nessuna regolamentazione al riguardo. Anzi, mi scusi se mi permetto,” si leccò le labbra, incapace di trattenersi, “non è un po’ illegale discriminare gli sconnessi?”

L’uomo inarcò le sopracciglia, per poi distogliere lo sguardo dalla ragazza a disagio; si portò una mano alla cravatta per allentarla. “Ragazza mia,” disse, alzandosi per andare verso la grande finestra dell’ufficio, “ormai tutti sono iscritti nel Sistema. Potrei assumerti, è vero, hai un bel curriculum, ma a che costo? Se mai avessi bisogno di te in reparto, cosa dovrei fare, mandarti un SMS? Tanto vale usare i piccioni viaggiatori.” Si era messo le mani in tasca e rise alla sua stessa battuta.

Nova si alzò dalla sedia, prendendo la sua borsa che aveva poggiato lì accanto; il pupazzetto a forma di ranocchia che suo padre le aveva regalato da bambina era lì tutto ingrigito che la guardava con pietà. Dispiace anche a me, sai? “Va bene, va bene,” mormorò, “grazie comunque della considerazione.” Avrebbe volentieri mandato l’uomo a quel paese, ma poi avrebbe avuto guai ben più grossi. Cercò di ignorare le guance che le stavano andando a fuoco per la vergogna e lo salutò con un breve saluto, senza nemmeno guardarlo un’ultima volta. Restare ancora sarebbe stato da stupidi.

Uscita dall’ufficio, tenne gli occhi fissi al pavimento dell’ospedale, scendendo le scale e uscendo dall’edificio sentendosi leggera leggera. La tensione stava andando via, lasciando spazio ad un’immensa delusione e ad un senso di sconfitta. Oh, se solo fosse rimasta su Marte! Lì aveva trovato un lavoro sicuro come infermiera in uno degli ospedali più grandi nella Stazione Koenig ma poi, cosa avrebbe fatto suo padre? Dalla morte della mamma non era stato più lo stesso, non poteva restare da solo. Non aveva nessun altro all’infuori di lei. Aveva pensato di far trasferire suo padre su Marte, ma un uomo della sua età avrebbe sofferto moltissimo ad abbandonare il suo Pianeta Natale; in fondo, la tomba della sua amata moglie era sulla Terra, non avrebbe potuto più visitarla ogni giorno. Così, Nova aveva deciso di tornare sulla Terra, confidando nel suo curriculum perfetto ed allettante, ma a quanto pare la fede nel Sistema era più forte.

Si sedette sul primo bus arrivato alla fermata della piazza davanti all’ospedale e tirò fuori il cellulare, segnando via anche quell’altro posto di lavoro. Aveva girato tutte le cliniche della città e dintorni, aveva mandato richieste a chiunque ma nessuno, proprio nessuno, voleva farla lavorare. Si iscriva sul Sistema e ne riparliamo, le aveva detto una direttrice arcigna in un’altra clinica, saremmo felici di averla con noi.

Cliccò sopra l’icona dell’extranet, l’evoluzione del vecchio internet che ti permetteva di chattare anche con Marte con solo trenta secondi di differenza, e cercò nel motore di ricerca Sistema. Come primo risultato, le uscì fuori la pagina ufficiale del social network: era una semplice pagina azzurrina con un disegno stilizzato di un globo circolare e la lettera S nel centro. Ti invitava ad iscriverti subito per iniziare ad essere finalmente connesso con il mondo, come un diavolo tentatore nel mare della libertà. Unisciti a miliardi di persone, connetti adesso! Ricordava come i suoi compagni di classe si scambiavano i compiti sul Sistema o spettegolavano nel loro gruppo segreto: ciò nonostante non si era mai sentita tagliata fuori perché poi i fatti veri i propri avvenivano nella classe. Se c’era da chiedere aiuto a qualcuno, Nova telefonava alla sua compagna di banco di turno e finiva lì; ora però sembrava che non potesse più rimandare l’iscrizione.

Sulla schermata del telefono apparve la facciona buona di suo padre: come minimo la stava chiamando per sapere come stesse andando la ricerca del lavoro. Nova prese un grande respiro e poi rispose, “pronto, papà?”

“Nova! Tutto okay? Ancora non hai finito oggi?” Il tono di voce di suo padre era più stanco del solito; sicuro aveva lavorato ai suoi aggeggi di legno in cantina. Era un hobby molto bello che lo teneva occupato buona parte della giornata, ma lo stancava forse un po’ troppo. Nova era sicura che se anche l’avesse legato al letto, suo padre avrebbe trovato un modo per liberarsi dai legacci: era una forza della natura.

“Tutto bene, papi,” rispose Nova cercando di sembrare tranquilla, “ho quasi finito, mi mancano un paio di cliniche in periferia e ho fatto, in fondo non ce ne sono tante!”

Suo padre non rispose subito; tossì un paio di volte, il respiro pesante e affaticato, “va bene, va bene,” riuscì a dire, “allora ti aspetto per mangiare, ci sei a pranzo?”

“Guarda, tornerò per l’una e mezza o giù di lì, dipende dal bus che prendo… Mangia se vuoi, eh!” Nova sentì il bip bip bip del forno in sottofondo.

“No, no, no, ti aspetto! Ho mangiato da solo per troppo tempo,” mormorò suo padre, facendola sprofondare nel sedile, mangiata dai sensi di colpa; lui sospirò e riprese a parlare, “ho appena messo due cosine in forno, tanto fa tutto da solo! A dopo allora, eh, che mi racconti tutto!”

“Sì, ciao papi, a dopo,” strisciò il dito sul bottone rosso terminando la chiamata e fissò il sedile davanti a sé: cosa gli avrebbe dovuto raccontare? Dei continui rifiuti e porte in faccia? Del fatto che avrebbe potuto lavorare se solo si fosse abbassata a fare quello che facevano tutti? Due erano le soluzioni possibili: iscriversi al Sistema rinunciando alla sua libertà, oppure ripartire per Marte rischiando la salute fisica e mentale di suo padre. Guardò fuori dalla finestra, dove le macchine formavano una lunga fila fino alla piazza principale; in lontananza, un maxischermo mostrava la pubblicità del Sistema dove un ragazzo e una ragazza si abbracciavano dolcemente. Il tuo futuro, la tua famiglia, la tua vita. Il Sistema sei tu.

Si mise in tasca il cellulare e si asciugò due lacrime dal viso, cercando di controllarsi: era in pubblico, non c’era bisogno di fare scenate. La ranocchia pendeva dalla borsa, rassegnata della sua vita malconcia.

Il Sistema sei tu.

***

La settimana seguente il padre di Nova non poteva essere più felice: finalmente la sua bambina aveva trovato un impiego, presso una clinica privata per giunta! C’era da festeggiare. Certo, Nova gli era sembrata più pallida e stanca del solito, ma le cose sarebbero migliorate. Lui le aveva detto di non preoccuparsi e di restare su Marte, ma quando si metteva un’idea in testa era difficile togliergliela!

“Pronta ad iniziare allora?”

“Non vedo l’ora,” rispose Nova con un mezzo sorriso; si mise su un cappotto e prese la borsa in spalla, fermandosi davanti alla porta di casa per guardare suo padre. Sì, Nova aveva proprio due brutte occhiaie, che gran peccato. “Ci vediamo questa sera a cena, stacco alle sei di sera, poi ti faccio sapere semmai…”

“Va bene, Nova. Buona giornata,” le disse abbracciandola e aprendole la porta; lei gli fece un timido gesto di saluto con la mano e si dileguò giù per le scale.

L’uomo sospirò e quando si chiuse la porta dietro le spalle, notò una piccola ranocchia malandata poggiata sul tavolo, come se fosse stata abbandonata.