L’Ultimo Giorno della Terra

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Che ci possiamo fare.

L’ultimo giorno della Terra la sveglia è suonata alle sei e mezza, stanza da letto immersa nel buio, sempre nel buio; la luce bluastra della televisione illuminava fiocamente il salotto, le immagini tetre si rispecchiavano sul bordo trasparente della tazzina da caffè.

Il sonno ancora intorpidiva il corpo stanco e pallido, ma tra un sorso alla bevanda calda e un morso ad una galletta insipida, si trovava il tempo per cercare di assimilare le notizie provenienti dal mondo spezzato.

La voce del giornalista in televisione era dura, la Terra è condannata; poi la trasmissione si interrompeva per la pubblicità di qualche profumo e si dimenticava tutto con una sgrullata di spalle.

Bisognava andare a lavoro.

Che ci possiamo fare.

***

L’ultimo giorno della Terra si andava a scuola, mascherina bianca su bocca e naso, occhiali per proteggere la vista; appena si usciva da casa, una coltre di nube scura e pesante abbracciava il tuo corpo, minacciando di avvelenarne ogni cellula.

Entrati nell’edificio ci si toglieva di dosso ogni capo protettivo, sbattendo le palpebre più volte per abituare la vista alla luce al neon improvvisa.

Luce artificiale.

“In classe, in classe,” borbottava il bidello, dando colpetti decisi al muro con un pugno, “devo chiudere le porte.”

In aula i ragazzi si sedevano ai banchi, spettegolando di qualche ragazzo di quinto e della sua ultima bravata in palestra; qualcuno mandava messaggi sul cellulare, un altro like, un altro cuore sotto una foto di una foresta in fiamme.

“Buongiorno,” l’insegnante entrava in classe salutando, posava la borsa sulla cattedra.

Ora di matematica.

Che ci possiamo fare.

***

L’ultimo giorno della Terra era come tanti altri, immerso nel buio dell’ignoranza e dell’egoismo.

Era un giorno come tanti altri.

Che ci possiamo fare.

Racconto Breve – “La Tuta”

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Il mio racconto La Tuta fa parte della raccolta Futuro Prossimo. Potete prendere il pdf al link e leggere le altre storie di tutte le persone che hanno partecipato al gioco letterario!


La Signora Agnes accese le luci del salotto alle sette in punto: lo schermo olografico della televisione si attivò, trasmettendo il meteo come da programma. In alto a destra, dei piccoli numeri segnavano la data del giorno, 23 Febbraio 2054. Diede un veloce sguardo alla nuvola 3D che prometteva pioggia, per poi andare nella cucina ed affrettarsi a scaldare un paio di fette di pane da toast. Sbuffò quando vide che nella confezione, ne erano rimaste solo tre. Chi aveva fatto la spesa l’ultima volta? Roberto? Elina? Possibile che si fosse dimenticata proprio del pane? Le mise tutte nella tostiera e poi si avvicinò alla finestrella della cucina: scostò le tende, osservando la fitta nebbia arancione che inglobava tutto il vicinato. Tanto tempo fa quel quartiere scoppiava di vita la mattina: scoiattoli nei giardini, merli canterini, corvi e cornacchie…

“Buongiorno,” bofonchiò Roberto, il figlio minore. Aveva solo tredici anni eppure era molto alto per un ragazzo della sua età, tanto che molti lo scambiavano per un ragazzo del liceo. Andò verso il frigo e prese la bottiglia di succo di frutta naturale al 10%, per poi versarsi un bicchiere di aranciata slavata. Non si trovava di meglio in giro. Preso il bicchiere, si sedette sullo sgabello che dava sull’isola in cucina, sbadigliando sonoramente.

“Buondì,” rispose Agnes, allontanandosi dalla finestra. La tostiera scattò, facendo sbalzare fuori il pane pronto per essere gustato. “Vuoi?” Chiese la donna, mettendo le fette su un piatto.

Roberto sbadigliò di nuovo, annuendo. Agnes sospirò, posandogli il piatto davanti, “lasciane una a tua sorella, sono finite.”

“Cosa sono finite?” Squittì una vocina: Elina era appena arrivata, scendendo le scale due a due. Sembrava più sveglia del fratello, con il cellulare perennemente in mano e i pantaloni della tuta rosa che le coprivano le gambe secche. Aveva quindici anni ed era nel pieno dell’adolescenza. Diede una spintarella a Roberto, sedendosi al suo fianco.

“Buongiorno,” sospirò Agnes, “il pane, è finito, dovrò andare a fare la spesa.”

Elina fece spallucce, guardando la madre con sguardo interrogativo, “e quindi? Noi usciamo tutti i giorni per andare a scuola, dov’è il problema?” Si mise il cellulare in bilico sulle cosce, così da avere le mani libere; prese una fetta di pane ed un coltello, immergendolo nella crema di cioccolato.

Agnes si strinse le braccia intorno al corpo, “il meteo dice pioggia.”

“Anche oggi?” Bofonchiò Roberto, ancora perso nel dormiveglia, “è così da una settimana.”

“E allora? Ti metti la tuta e il casco, lo facciamo sempre,” Elina non comprendeva la preoccupazione del resto della sua famiglia. Mangiò con gusto il pane, un occhio sul cellulare per controllare i social network, per nulla impressionata dal meteo. “Non prendiamo il bus allora?”

“No, vi accompagno io,” rispose la donna, andandosi a vestire in camera sua, “preparatevi che usciamo subito.” Fece le scale con calma, persa nei suoi pensieri: odiava fare la spesa, non era un segreto. Odiava uscire di casa per fare scorta di cibo e bevande, perché il solo pensiero di mettere il naso fuori la rendeva nervosa. Certo, c’era il servizio Consegne&Spedizioni della città che ti procurava lo stretto necessario, ma era relegato solo per determinate marche di prodotti; per di più, trovandosi la casa di Agnes fuori dal centro, le capitava di attendere anche per più di due giorni prima che il fattorino arrivasse con la sua spesa. No, non poteva fidarsi di quel servizio, non sempre.

Arrivata in camera, tirò fuori dall’armadio la sua tuta, con tanto di casco incluso: l’aveva comprata su internet poco dopo la nascita di Roberto, quando divenne obbligatoria per uscire all’aperto. Quante persone erano morte prima che si arrivasse a quella soluzione temporanea? Il mutamento del clima era in corso da anni, lo sapevano tutti, eppure facevano finta di niente. Accadde l’inevitabile: le persone morivano come mosche, avvelenate con lo smog presente nell’aria, bruciava la pelle, gli occhi; la pioggia acida cadeva incessante per giorni, corrodeva i campi e distruggeva le culture; le temperature estive e invernali erano imprevedibili, mortali.

Agnes accarezzò la tuta inutilizzata di Tobias, incapace di trattenere una lacrima solitaria che le rigò il viso. Tobias fu una delle tante vittime di quegli anni: poco dopo la nascita di Roberto, fece in tempo a tenerlo fra le sue braccia un solo giorno. Lei ed i suoi figli erano vivi per miracolo: corpi diversi, reazioni diverse o forse fu solo fortuna, chissà. Fatto sta, Agnes aveva cresciuto Roberto ed Elina da sola, attenta ad essere sempre coperta dalla tuta. Quando indossata, diveniva tutt’uno con il corpo, permettendo ogni tipo di movimento: durante gli ultimi anni erano state prodotte anche di colori diversi, con tanto di slogan per fare pubblicità all’azienda che le fabbricava in massa. Piuttosto che curare il pianeta Terra, la razza umana aveva deciso di continuare a sporcare e sfruttare ogni singola risorsa a sua disposizione, adattandosi al nuovo clima.

Con la tuta.

Le piangeva il cuore sapere che i suoi figli non avrebbero mai visto il cielo limpido e azzurro una mattina di primavera; non avrebbero mai udito il cinguettio degli uccellini, né il gracchiare dei corvi o delle cornacchie; non avrebbero mai provato il calore sulla pelle passeggiando sotto il Sole.

Si guardò allo specchio, fissando il suo riflesso infilato nella tuta color onice, per poi nascondere la testa nel casco; scese le scale, attendendo che i ragazzi la raggiungessero vestiti come lei, con le borse in spalla. “Accendete i caschi,” ordinò Agnes, aprendo la porta che dava su un piccolo ingresso chiuso: qui, avrebbero atteso fino alla completa depressurizzazione, prima di poter uscire nel giardino deserto. Guardò i suoi due ragazzi: in quelle tute, sembravano due piccoli alieni pronti ad esplorare un pianeta inospitale.

Depressurizzazione completata, avvisò la voce meccanica nei loro caschi.

Potevano uscire.

Non erano più umani.

Futuro prossimo – il pdf — Solo io e il silenzio

Finalmente! Ecco il nostro pdf con tutti i racconti del gioco letterario “Futuro prossimo”. Lo so che andrete subito a sfogliare per verificare se avevate indovinato i nomi degli autori e i relativi racconti. Per chi non ha seguito prima, a questo tag trovate tutti i racconti e la fase iniziale del gioco. Questo è […]

via Futuro prossimo – il pdf — Solo io e il silenzio


Ecco qui il pdf del Gioco Letterario “Futuro Prossimo” a cui ho partecipato anche io con un mio racconto inedito, “La Tuta”!

Se come me amate la fantascienza o semplicemente siete degli avidi lettori, cosa aspettate ad immergervi nella lettura? Basta scaricarlo dalla pagina! 😊

Complimenti ancora a tutti coloro che hanno partecipato, in particolare a Morena Fanti che sul suo blog ha organizzato il gioco e ha curato il pdf finale.

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Scacchi di Natale

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Jingle bell, jingle bell, jingle bell rock, Jingle bells swing and jingle bells ring…

“Stanno arrivando?”

“Ma è ancora troppo presto!”

“Presto? Fuori non c’è più il sole, ci siamo ormai!”

“Mah, non credo.”

“Ssssh, piano, sta fermo, Thompson è qui! Vuoi farti scoprire?”

“Ma cosa vuoi che senta il vecchio, è sordo!”

“Appunto, è sordo, ma mica cieco!”

Il piccolo Pedone Bianco si zittì, sporgendosi dall’armadio dove si trovava la loro scacchiera; il Cavallo Nero con cui aveva parlato fino a poco prima nitrì innervosito, trottando verso i suoi Re e Regina. Possibile che fosse ancora così presto? La data segnata sul calendario era giusta, 24 dicembre, Vigilia di Natale. Allora perché non era ancora arrivato nessuno?

What a bright time, it’s the right time to rock the night away…

Il Signor Thompson batteva il tempo della canzone natalizia con il piede, un dolce tump tump tump sulla moquette di un colore verde militare sbiadito; aveva pulito tutta casa fino a poco prima, adesso si meritava una piccola pausa. Ci teneva a fare una bella figura con i suoi parenti!

Il Pedone Bianco non stava più nella pelle, voleva iniziare una partita al più presto: era da Pasqua che il vecchio Thompson non tirava giù la vecchia scacchiera dall’armadio. Bianchi e Neri, seppur a malincuore, si erano abituati alla loro nuova vita fatta di poche battaglie e tante attese; purtroppo, da quando l’amatissima Signora Thompson se ne era andata, il padrone di casa non se la sentiva affatto di giocare da solo. Ma fortunatamente durante le feste, figli e nipoti si ritrovavano nella casa e subito gli tornava la voglia di giocare a scacchi.

Il piccolo Pedone Bianco avrebbe desiderato tantissimo che i nipoti del Signor Thompson passassero più spesso dal vecchio nonno per giocare assieme, ma vivevano lontani, sparsi per il grande globo: così, doveva accontentarsi solo delle feste.

“Meglio che niente,” sospirò, voltandosi verso i suoi compagni di scacchiera. Il suo Re e la sua Regina stavano sonnecchiando, ronfando beatamente cullati dalla canzone natalizia; nel frattempo, i due Cavalli Bianchi facevano una gara di velocità da un bordo all’altro della scacchiera, senza fare troppo rumore grazie alle loro estremità imbottite. Tump, tump, tump, il loro suono si confondeva con quello ovattato prodotto dal piede del Signor Thompson.

“Ancora nulla?” Bisbigliò l’Alfiere Bianco, avvicinandosi con cautela, “Cavallo Nero mi sembra nervoso oggi.”

“Forse perché ha paura di perdere, il ronzino,” ridacchiò la Torre Bianca, dando un colpetto di intesa al suo compagno.

Il Pedone Bianco guardò verso l’ingresso che si intravedeva dalle vetrate della porta del salotto, “ancora non si vede nessuno.”

“Mmm, forse c’è traffico. Sono solo le sette secondo mio fratello,” replicò l’Alfiere, “ha visto il vecchio guardare l’orologio da taschino poco fa.”

“Sicuro?”

“Così dice Alf!”

“Siate pazienti!” La voce della Regina Nera li interruppe. Si avvicinò con maestosità, con la sua corona che la rendeva ancora più alta e fiera. “Arriveranno, come sono sempre arrivati ad ogni festa. Penso sia ridicolo solo parlarne, miei cari.”

I tre pezzi bianchi si guardarono fra di loro poco convinti: nessuno comunque ebbe voglia di replicare alla regnate dei pezzi Neri, visto che solitamente erano sempre in conflitto e la Regina incuteva timore un po’ a tutti sulla scacchiera. Il Pedone Bianco preferiva di gran lunga la sua Regina Bianca, che il più delle volte dormiva e non possedeva quell’aria altezzosa.

La Regina Nera, capendo che non avrebbe ottenuto delle risposte, sbuffò e se tornò da dove era venuta; la Torre Bianca tirò un sospiro di sollievo, “pensavo non se ne andasse più! Non vedo l’ora di stracciarli dopo cena…”

“Sempre che il vecchio giochi con noi Bianchi,” l’Alfiere replicò, “se ci tocca giocare per il piccolo Johnny, siamo finiti.”

“Ehi, Johnny aveva 9 anni l’anno scorso. Adesso ne ha 10. Potrebbe andarci meglio, no? E poi il vecchio si sa che preferisce giocare con noi…”

“Uhm, ricordi male. Era la Signora Thompson che giocava con noi.”

La Torre rimase in silenzio per un attimo, valutando le parole dell’Alfiere. “Sicuro?”

Il Pedone Bianco mosse in avanti ed indietro la sua testolina tonda, per poi tornare a guardare verso l’ingresso speranzoso: in quel momento, il suono del campanello risuonò nella casa.

“CI SIAMO!” Esclamò eccitato, saltato sul posto, “CI SIAMO!”

I due sovrani Bianchi si svegliarono di soprassalto; i due Cavalli fermarono la loro corsa; i Pedoni guardarono il fratello incuriositi.

“Silenzio!” Il Cavallo Nero richiamò il Pedone Bianco, ma fu inutile: tutti adesso erano entusiasti dell’arrivo dei parenti Thompson.

Di fatto, il Signor Thompson si era alzato dalla poltrona ed era andato ad aprire la porta: un vociare indistinto di uomini e donne che si scambiavano gli auguri si udì fino in salotto. Due bambini furono i primi ad entrare nella casa del nonno, togliendosi le pesanti giacche invernali e lasciandole dimenticate sulla poltrona.

“Rose, Johnny, che cosa vi ho detto? Forza, mettete apposto le giacche!” La voce della madre Emily, nonché figlia del vecchio Thompson, era autoritaria e non ammetteva repliche. I due bambini non poterono far altro che riprendere le giacche e sistemarle con cura sull’appendiabiti.

La scacchiera era tutto un fremito.

“Dici che si metteranno a giocare presto?”

“Magari inizieranno prima della cena per scaldarsi un po’, no?”

“Oh, non vedo l’ora!”

“Ma lasciateli mangiare prima! Siete veramente assillanti certe volte…”

Il Pedone sospirò nel sentire il brusio dei suoi compagni di scacchiera: era ovvio che non avrebbero giocato prima della fine della cena. Ogni anno era sempre la stessa storia, c’era un copione perfetto da dover rispettare: presto si sarebbero seduti a tavola per mangiare insieme le prelibatezze del vecchio Thompson ed i bambini poi, avrebbero scartato i regali nell’entusiasmo generale…

“Nonno, possiamo giocare con la scacchiera?”

Il giovane pedone non poteva credere alle sue orecchie: stava accadendo davvero? La piccola Rose era andata a chiedere al nonno di prendere il loro piccolo campo di battaglia così presto?

“Vuoi già giocare?” Il Signor Thompson era rimasto stupefatto tanto quanto il pedone. “Ma certo!” Esclamò l’uomo con un gran sorriso.

“Oh, amici, ci siamo!” Bisbigliò il pedone, “ci siamo!”

Guardò rapito come le due grandi mani del Signor Thompson presero la scacchiera con attenzione, tirandola giù dal loro posto abituale. Della polvere si mosse intorno a loro, ma per il resto, le statuine erano immobili, fremendo segretamente dall’entusiasmo.

“Eccola qui,” fece il Signor Thompson, posandola sul tavolino posto in mezzo alle due poltrone del salotto. Il pedone si trattenne dal saltare dalla gioia: sembrava di essere tornati ai vecchi tempi! Venne preso da due piccole dita timide timide, per poi essere spolverato da un grande fazzolettone, “ecco, ecco, lucidiamole un po’!” Commentò il Signor Thompson, facendo ridere la piccola Rose.

Si sarebbe preannunciato un Natale favoloso…


Con questo breve racconto fine a sé stesso, vi auguro buon anno e ancora buone feste! Ci vediamo nel 2019, con nuovi articoli e racconti pronti per essere letti!

“Condizionamento” una nuova storia solo su “Incubi Terrestri – Orrori Quotidiani”

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“Ci andiamo insieme, che male c’è?” Le aveva detto, mentre si infilava una camicia hawaiana, senza nemmeno attendere la risposta della moglie. Per Louis non erano passati dieci anni dal diploma, anzi, probabilmente una parte di lui viveva ancora tra i ricordi goliardici delle superiori. Sconfitta, Marina aveva sospirato prima di andarsi a sistemare, prendendo un vestito nero e lungo fino al ginocchio dall’armadio, abbinato a dei tacchi; conoscendo il tipo di ragazze che avevano frequentato i suoi stessi corsi, probabilmente sarebbe stata la più sobria alla cena.”

***

Sono passati 10 anni dalla fine del liceo: secondo Louis, marito di Marina, partecipare alla rimpatria della loro classe potrebbe essere divertente. Chissà che fine hanno fatto i loro vecchi amici, Sandra o Thomas, oppure la timida Yumi Agoi! A quanto pare, la ragazza lavorava presso i laboratori Gamma Phi… Scoprilo leggendo “Condizionamento”, una nuova storia tratta da “Incubi Terrestri – Orrori Quotidiani” su Amazon.

Il Prossimo

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Ci sono venti cabine poste all’ingresso del settore Nord; altre venti sono al settore Est, mentre l’Ovest e il Sud ne hanno solo quindici, senza contare le dieci in costruzione. Da quando il Consiglio della Cittadella ha imposto la chiusura dei confini con le Terre Esterne, i controlli sono divenuti rigidissimi.

Nessuno entra, nessuno esce senza notificare le autorità della Cittadella.

Da voi si vive più a lungo! Ci sono medicine, cibo, acqua! Fateci entrare! Proteste di questo tipo sono all’ordine del giorno, portate avanti da gruppi di persone che si ammassano lungo il muro che abbraccia la Cittadella. Possiamo trovare una cura insieme! Fateci passare!

Una volta, la Cittadella non era altro che il centro storico della megalopoli Kantor: vi vivevano circa cinquanta mila persone, ammassate in grattacieli di cento e più piani, attrezzati con gli ultimi confort. Il Consiglio di Kantor risiedeva nel palazzo dorato al centro di un grande giardino rigoglioso, nonché l’attuale Quartier Generale della Cittadella.

La popolazione di Kantor si dilettava nell’arte, nella coltivazione dei campi, nello sviluppo dell’industria e della tecnologia: erano probabilmente una delle civiltà più avanzate nell’Universo. Nessuno aveva mai intrapreso una guerra con Kantor, limitandosi a trattare diplomaticamente o a fare affari commerciali che sarebbero durati per anni a venire.

Questo, per lo meno, era la situazione più di cento anni fa: purtroppo, questo benessere di cui godeva la popolazione non era sinonimo di salute.

Le nascite erano crollate vertiginosamente: le persone non riuscivano ad avere figli, e quei pochi bambini che nascevano erano di salute cagionevole. Era colpa del cibo, dell’acqua? Niente di tutto questo: a quanto pare, le radiazioni emesse dalle industrie in periferia sembravano essere le responsabili.

Erano già in mezzo a loro, dalla mattina che si svegliavano, alla sera quando era ora di andare a letto. La razza umana si era avvelenata lentamente a sua insaputa ed era ormai troppo tardi per porvi rimedio: bisognava salvare il salvabile, proteggere chi ancora era in grado di riprodursi e possedeva un DNA pulito da malattie potenzialmente disastrose.

La Cittadella si chiuse nel suo palazzo dorato, estraniandosi dal resto di Kantor: la periferia cadde in uno stato di caos e degrado, aprendo le porte solo per coloro che fossero stati utili per portare avanti il futuro della razza umana.

Le cabine ai confini non sono grandissime, c’è giusto lo spazio per una scrivania con sopra un computer di ultima generazione; le sedie sono scomode ma funzionali, la luce al neon ronza fastidiosamente ma illumina il piano di lavoro, ed è abbastanza per permettere ai controllori di compiere il loro dovere.

I controllori.

C’è chi dice che non siano affatto umani, altri credono che siano stati creati in un laboratorio apposta per essere messi dentro quelle cabine claustrofobiche. La Cittadella non ha rivelato nulla al riguardo, così la gente si domanda chi siano veramente quegli esseri dal viso umano e gli occhi meccanici. Una persona con troppa empatia potrebbe star male al solo pensiero di dover condannare degli innocenti a morte certa nelle Terre Esterne. Non hanno un nome, ma un codice personale di identità, come quelli che leggono sui loro computer.

Uno, due, tre, sette, mille e altri mille, poi ricomincia; e ancora, ancora, ancora, altri numeri che si susseguono a cascata, senza sosta, senza freni, si presentano volontari al rigido controllo. In tanti hanno provato a rigirare il sistema, ma non sanno che niente sfugge sotto il loro sguardo.

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Lui è uno dei controllori del settore Nord: in silenzio proteggono la Cittadella dagli Indesiderati, coloro che con i loro geni potrebbero insozzare la pura razza umana che vive in quelle mura sicure.

“Il prossimo.”

Uomini e donne vengono fatti passare uno ad uno sotto un arco di metallo scuro, scansionati, digitalizzati, per poi essere disintegrati in tanti piccoli numeri che raccontano la loro vita e i loro sogni ai controllori. Adesso è il turno di un uomo basso sulla sessantina, vestito con una casacca marrone tipica degli operai; in mano ha un cappello che strizza tra le dita come se fosse una spugna, in preda al nervosismo.

L’arco emette un suono lungo e cupo non appena entra in funzione; l’uomo guarda in su con la bocca aperta, ma il controllore non è interessato a quella scena. Gli occhi cibernetici del ragazzo guizzano sullo schermo, scattano da una riga all’altra, immagazzinano informazioni su informazioni. La luce bluastra del computer si riflette sulla sua pelle diafana, che non è mai stata sfiorata dalla luce del Sole.

L’arco si spegne, torna ad essere silenzioso.

Si accende una luce scarlatta in faccia all’uomo che si copre gli occhi per lo spavento.

Il controllore si avvicina al microfono in dotazione ad ogni cabina e pigia sul bottone verde. “Rifiutato,” pronuncia, guardando con passività gli androidi portare via l’uomo che voleva entrare nella Cittadella. Sta urlando qualcosa, forse lo sta insultando, ma il ragazzo non si offende.

Lui fa solo il suo dovere, niente gli sfugge.

“Il prossimo.”

Tocca ad una ragazza spavalda, che cammina con la testa alta fin sotto l’arco; alza la testa e guarda verso di lui, lo guarda negli occhi, fissa quei bulbi blu meccanici.

L’arco entra in funzione, ma lei non si impressiona, guardando ancora il controllore.

Lui è impietrito. I numeri sono scomparsi dallo schermo, attendono di caricarsi e si sente a disagio per la prima volta in anni di vita legato ad un computer.

“Perché lo fai?” Le chiede, sovrastando il rumore dell’arco.

“Faccio quello che devo,” risponde lui, sorpreso nell’udire il suono della sua voce. Di solito, i controllori non parlano con nessuno, restano muti ed inerti nel compiere il loro dovere.

La ragazza sorride, sembra triste, ma il ragazzo non saprebbe dirlo con certezza: finalmente, i dati scorrono, numeri e lettere che gli annebbiano la vista e lo rendono nuovamente efficiente.

“Non posso passare,” dice lei, ignorando il cartello fare silenzio durante la scansione, “so già che mi manderete via.”

Pressione troppo bassa, geni difettosi, problemi di vista, carenza di ferro.

Sbagliata, errata, diversa.

“Non so nemmeno perché sono venuta,” continua a parlare noncurante della luce rossa che le illumina il volto, “forse volevo vedere con i miei occhi che razza di mostri hanno creato per condannarci tutti.”

Gli ride in faccia, sembrando meno dolce di prima, per poi domandarli con genuina curiosità, “sei almeno un po’ umano?”

Il ragazzo sfiora i tasti del suo computer, immagazzina i dati nella sua mente e poi scandisce la sua sentenza.

“Rifiutata.”

La donna scuote la testa, “come immaginavo.”

Le guardie robotiche avanzano per portarla via, ma lei alza le braccia e se ne va di sua spontanea volontà, non voltandosi indietro neppure una volta.

Il ragazzo non le bada: fa il suo dovere, segue il suo programma.

Numeri, lettere, informazioni.

Un altro è pronto a farsi controllare: è solo un giorno come tanti per il bene della Cittadella.

“Il prossimo.”


*Gif iniziale tratta dal film Dredd (2012)

Polvere

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“Secondo i miei calcoli, dovremmo trovarci nei pressi della vecchia città di Seattle, Nord America.”

“Dici? Vedo solo sabbia scura. Qualche sasso forse.”

Tratto da Polvere, Oltre Un Punto Blu

Sono passati 1000 anni da quando l’essere umano ha abbandonato per sempre la Terra, il suo pianeta d’origine: una spedizione di giovani ragazzi è tornata per visitarla. Leggilo qui: Oltre Un Punto Blu.

La Dimensione dell’Esagono

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Matt stava tornando a casa da scuola a piedi, come tutti gli altri giorni, quando notò qualcosa di strano poco fuori casa sua: sopra il muretto solitamente grigio, c’erano disegnati degli strani simboli neri; ricordavano le cellette esagonali degli alveari solo grandi quanto un vinile.

Per curiosità, le sfiorò con le dita e quelle inaspettatamente si illuminarono di un blu elettrico accecante; cadde a terra per lo spavento, sentendo la terra tremare intorno a sé…

“Ragazzo! Ragazzo, allontanati da lì!”

Tratto da La Dimensione dell’Esagono, Oltre Un Punto Blu

Sembra una giornata tranquilla, peccato che se come vicino di casa hai un vecchio strampalato, le cose possono complicarsi: Matt riuscirà a tornare a casa da scuola sano e salvo? Leggilo qui: Oltre Un Punto Blu!

Stato di Cartapesta

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“Con l’altro pugnetto, stringeva la bandierina di cartapesta fatta all’asilo, orgoglioso del tricolore e di quello che rappresentava: la famiglia, l’amore, il rispetto, l’unità.”

Era una giornata di sole che tempo fa ti avrebbe fatto venir voglia di andare al mare, facendoti dimenticare di ogni preoccupazione o responsabilità. Era veramente un peccato che ormai le cose fossero cambiate così tanto: ormai, era un miracolo sopravvivere, figuriamoci se si potesse andare a lavoro e prendersi delle ferie pagate. Non esisteva più niente del genere, tutto aveva perso senso.

Mattia sospirò, guardando fuori dalla finestra del suo piccolo monolocale in periferia di una grande città di quello che una volta era stata l’Italia: un’altra giornata stava iniziando e sarebbe andata esattamente come quella precedente, immerso nel silenzio tombale del declino della società.

Si infilò una maglietta ed un paio di pantaloncini, che aveva abbandonato sul comodino lì accanto la sera prima, per poi spostarsi nel piccolo cucinino e controllare i viveri: un paio di pacchetti di gallette, dei biscotti secchi, cibo in scatola, quattro bottiglie d’acqua sigillate ed un catino d’acqua piovana. Ancora ringraziava quella pioggia torrenziale improvvisa che si era abbattuta quasi una settimana prima, dandogli acqua in abbondanza: parte l’aveva messa nella vasca da bagno, conservandola per i giorni futuri.

Accese la radio, sperando di ricevere qualche comunicazione importante, ma sapeva già che non sarebbe arrivato niente. Lo Stato non esisteva più da tempo: la Grande Epidemia aveva distrutto la società anni prima, quando Mattia era ancora un ragazzo delle superiori. Ricordava ancora quando in giro per la città si pubblicizzavano controlli gratuiti e cure per tutti per cercare di contrastare l’Epidemia; peccato che la maggioranza delle persone non diede ascolto agli appelli disperati dei luminari, fidandosi invece di coloro che riempivano le piazze con le loro parole di odio e d’ignoranza. Si poteva barattare la salute di milioni di persone per un voto in più in un’elezione? A quanto pare sì.

Uno zio di Mattia partecipò a tutti i comizi di quella gente, emozionato come un bambino il giorno di Natale nel sentirsi dire esattamente quello che voleva sentirsi dire; Mattia non lo biasimò più di tanto, perché dopo anni di politica in cui non ci si rivolgeva al semplice cittadino, finalmente si sentiva preso in causa. Non passava una cena di famiglia in cui l’uomo non iniziasse la sua “ode al Governo”, dividendo la tavolata fra favorevoli e contrari, tanto che una volta si arrivò al lancio della frutta da una parte all’altra del salotto. Mattia rise come un matto nel vedere la faccia paonazza dello zio sporca di pezzetti d’anguria, anche se poi gli toccò pulire tutto quando l’uomo se ne andò via sbattendo la porta. Per sua madre, fu l’anguria meglio sprecata nella sua vita, soddisfatta di aver messo fine a quella baraonda.

A Mattia si strinse il cuore nel ricordarla, sgranocchiando le gallette a fatica. Ancora non si era abituato alla solitudine, nonostante avesse perso tutti nel giro di pochi anni: chi morto per vecchiaia, chi perché aveva lasciato il paese definendolo una nave che stava affondando, altri perché non erano sopravvissuti alla Grande Epidemia.

Già, la Grande Epidemia.

Mattia non aveva mai contratto quel morbo misterioso, che iniziò a girare durante il suo ultimo anno di liceo. Ogni giorno in classe erano sempre di meno: alle otto e mezza, orario della prima campanella, si guardavano fra loro, pensando a chi sarebbe stato il prossimo ad ammalarsi per poi morire nel proprio letto. Gli insegnanti che già erano pochi e scoraggiati, si ammalarono anche loro. Niente Latino, niente Matematica, cerca un supplente, il supplente non c’è, che facciamo? Ragazzi, andate a casa, andate a casa, tanto non imparavate niente lo stesso.

Le scuole chiusero i battenti.

Mancavano due mesi alla maturità.

Il caos regnava sovrano, fra chi impazziva di rabbia o dal dolore; in tanti morirono, vittime della paura, ammassati come degli zombie in centri commerciali. Le città si svuotarono, gli uffici chiusero, le farmacie e gli ospedali vennero assaltati dalla massa guidata da persone come suo zio.

Era troppo tardi.

Mattia finì di fare colazione, se così poteva chiamarla e si infilò le scarpe da ginnastica; una aveva un piccolo buco sotto la suola e i lacci erano sfilacciati, ma ancora ci poteva camminare. Forse era arrivata l’ora di trovarsene un paio nuovo al negozio più vicino, dove sicuramente non avrebbe trovato nessuno aggirarsi fra gli scaffali. Rise al pensiero di qualche disperato con un carrello pieno di tacchi o stivali, come se potessero essere la sua salvezza dalla fine del mondo.

Si mise lo zaino in spalla e lasciò l’appartamento, chiudendoselo dietro. Non aveva le chiavi, quindi ci spostò davanti un pesante armadio abbandonato nel corridoio del condominio per sbarrare la porta, come faceva ogni volta che usciva in perlustrazione. Per quanto ne sapeva, Mattia era solo in quella zona della città, se non contava i cani, i gatti randagi e qualche topo.

Uscì dal portone del condominio e si incamminò nella strada stretta e lercia, dando un calcio ad una lattina di una bevanda energetica, che avrebbe bevuto volentieri se solo l’avesse trovata fresca di frigorifero. La puzza dei rifiuti e di fumo in qualche modo lo rassicurava che niente era cambiato dal giorno precedente, né in peggio, né tanto meno in meglio. Proseguì per la strada fino all’incrocio, voltando a destra verso la piazza principale; da lì, avrebbe camminato fino a raggiungere il minimarket del quartiere per portarsi via il salvabile. Certo, ormai qualsiasi cosa aveva superato da molto la data di scadenza, ma era sempre meglio che non mangiare niente: ecco il perché delle gallette senza sapore. Si ricordava di aver lasciato degli scatoloni pieni di cibo ed era arrivato il momento di prenderne un po’ per portalo nell’appartamento.

Guardò il muro di un palazzo alla sua destra, dove c’era un vecchio manifesto di propaganda per il futuro glorioso dello Stato; il sole l’aveva sbiadito nel tempo, perché si faceva fatica a intravedere i contorni delle figure. Gran bel futuro, pensò Mattia, guardate un po’ come stiamo messi adesso. Sbuffò, continuando a camminare con lo sguardo basso, perso nei suoi pensieri. Quando andava all’asilo si disegnava come un grande omone con il mantello, un supereroe che avrebbe sconfitto i cattivi del mondo per aiutare le persone: quali erano stati i cattivi a distruggere il suo Paese? I politici corrotti, l’ignoranza, la paura, l’esasperazione della povera gente? Era la libertà stessa da colpevolizzare?

Mattia non aveva la risposta e forse non l’avrebbe avuta mai.

Entrò nel minimarket senza aprire la porta, visto che i vetri erano in mille pezzi; le scarpe scricchiolarono sui frammenti, mentre si avvicinava fra gli scaffali vuoti al retro bottega. Arrivato lì dietro, trovò i soliti scatoloni che aveva controllato giorni prima, ma che non aveva ancora svuotato: lui era uno solo e non era nemmeno chissà quanto forzuto per un lavoro del genere. Non ci mise troppo tempo nell’aprirli, mettendo via nel suo zaino dei fagioli in scatola e dei biscotti scaduti un anno prima. Quel che passa il convento…

Chiuso lo zaino con un gesto secco, se lo rimise in spalla ed uscì dal minimarket, soffermandosi per un attimo sul volantino con sopra scritto a caratteri cubitali LIBERI DI SCEGLIERE. Beh, siete stati liberi di scegliere di morire, fa lo stesso, no? Peccato mia madre non volesse fare quella fine, pensò Mattia sarcastico, prendendolo fra le mani per strapparlo a metà. C’era qualcosa di gratificante nel sentire il suono della carta fatta a pezzi, quasi come se fosse stata la sua unica vendetta nei confronti di un sistema malato e disfunzionale.

Mentre si allontanava, gli tornò in mente quando con sua madre faceva quell’esatta strada per andare a vedere la parata della Festa della Repubblica, mano nella mano. Con l’altro pugnetto, stringeva la bandierina di cartapesta fatta all’asilo, orgoglioso del tricolore e di quello che rappresentava: la famiglia, l’amore, il rispetto, l’unità. Finita la parata, emozionato andò alla finestra per fissarla da bravo bambino, ma purtroppo incominciò a piovere. La cartapesta si accartocciò su sé stessa, fino a stracciarsi, restandosene con solo uno stecco in mano e gli occhi pieni di lacrime. Mamma, mamma, aveva pianto Mattia, mamma, la bandierina si è rotta! Sua madre gli aveva sorriso per poi prenderlo in braccio, ne facciamo un’altra insieme, io e te, ancora più grande. Così, ne avevano fatta un’altra e tutto felice l’appese in salotto per essere sicuro che non si rovinasse.

Mattia sospirò, piangendo il suo Stato di cartapesta: lui era solo, e da solo non avrebbe mai potuto costruirne uno nuovo da difendere dall’intemperie.

Era solo un bambino con in mano uno stecco bagnato.

File, queste sconosciute!

Io credo nella fila. Io vengo dopo di te, tu vieni dopo ti me, lui viene dopo di noi, etc, etc, etc. Chi è l’ultimo? Numero? Grazie, aspetto qui. Adesso, non importa che ci si trovi in fila alla cassa di un supermercato, di una copisteria, una segreteria di una scuola, alle poste, dal medico: ci sono sempre dei soggetti che sanno di dover esistere per romperti l’anima. Sì, dico proprio A TE, che credi nell’ordine e nella civiltà.

Vero, a volte sembrano non terminare mai, eppure ci possono evitare tanti incidenti e litigi che altrimenti sarebbero all’ordine del giorno.


Una giornata qualunque, in una città qualunque

Prendi le tue cose, fai mente locale (latte, pane, uova, okay, ho tutto), ti metti in fila nel piccolo negozio sotto casa perché pensi, ehi, non mi va di andare fino al supermercato per due cose, posso farcela, ho solo un paio di personcine carine davanti. Ho pure il numero! 

Sbagli di grosso, mio caro avventuriero.

“Spiacenti, signori, il numero non funziona,” dice la povera commessa dietro al banco, indicando il numero digitale dietro di lei fermo a 99. Ah, mannaggia. “Chi c’era?”

Vabbè, non sarà una tragedia, pensi sempre fiducioso, siamo pochi, ce la posso fare.

Eh, no! Perché ecco che arriva lei: la signora con il cagnolino isterico al guinzaglio, occhiali da sole neri cerchiati che le coprono mezza faccia e le unghie curate che ricordano degli artigli. Oh, chi sono io per giudicare, pure Crudelia De Mon deve fa la spesa, no? Va bene. Prende un paio di cose al banco e poi si mette accanto a te, né troppo avanti, né troppo indietro.

Fin qui tutto normale.

La signora davanti a te si fa dare i suoi panini e il suo prosciutto cotto, paga e se ne va senza troppi problemi: saluta pure col sorriso, che è raro di questi tempi. La campanella tintinna e proprio quando stai per avanzare e parlare con la commessa, ecco che non la vedi più. La vista ti si annebbia, ora non c’è più il volto di una giovane donna pronta a servirti, ma una matassa di capelli tinti: Crudelia De Mon ti si è messa beatamente davanti, perché mi dispiace dirtelo, tu non esisti.

“Che ce li avete i panini all’olio tondi tondi?”

La voce sovrasta pure la musica pop alla radio e tu ti fai da parte, per paura di mangiarle i capelli. Strano che pure il cane non ti abbia preso per soprammobile: potresti inventarti un lavoro nuovo, il soprammobile umano nei minimarket, visto che adesso ti sta riuscendo molto bene.

Guardi la commessa dietro al banco che ti guarda con pietà e allora, sì, sì, esisti, non sei un fantasma!

“Ehm, Signora, scusi, c’era la ragazza prima di lei…”

Crudelia si volta di scatto e ti guarda dall’alto al basso. Lo sapevo, pensi, ho dimenticato di mettermi i pantaloni, sono senza scarpe, ho un ragno in testa, mi è rimasto del dentifricio sulla faccia.

Le sorridi, annuendo, “eh, sì, Signora…”

No, mi dispiace, non puoi fare nulla: Crudelia ti affonda con una sgrullata di spalle e si rigira a guardare la commessa.

“Ah, vabbè, ma tanto faccio presto! Ce li ha questi panini?”

Nel frattempo, ci sono altre due persone che sono entrate ed assistono alla scena; il cane fiuta il negozio, forse alla ricerca dell’educazione della sua padrona che le è caduta quando è entrata.

La commessa combatte: può cercare di mantenere l’ordine o soccombere alla donna. Tu capisci di dover intervenire e cerchi di essere il più gentile possibile. Ti schiarisci la voce, avanzi verso il banco e poggi le tue cose accanto alla cassa.

Ora sei faccia a faccia con la donna. “Signora, mi scusi davvero, ma c’ero prima io, il numero non funziona…”

Per Giove!

Il sole si oscura, un tuono scuote l’intera città. Le persone gridano pietà, pietà, pietà, il cane emette un guaito dinnanzi alla metamorfosi di Crudelia. L’Apocalisse inizia in un minimarket, stai per essere giustiziato.

“Che modi! Io faccio subito, l’ho detto prima, pago i miei panini e me ne vado!”

Capisci che non c’è nulla da fare. La commessa la serve solo per farla uscire dal negozio al più presto, mentre scuoti la testa e ti guardi con gli altri clienti in silenzio.

Crudelia paga, sistema il portafoglio nella sua borsetta e se ne va, tirandosi dietro il povero cane.

“Scusami,” dice la commessa sconsolata, “avevi ragione, ma non se ne andava più…”

Povera commessa: dopo una giornata a trattare con i pazzi, rischi di diventarlo pure tu.  Alla fine non te la prendi, perché per lo meno ora è il tuo turno e te ne puoi andare. Sei consapevole di essere una persona migliore, almeno in parte.

Il sistema delle file è stato sconfitto anche oggi, ma non perdi la fede, non ancora.

Ripeti il tuo credo, mentre torni a casa con la busta piena:

io non supererò mai nessuno,

rispetterò la fila,

aspetterò il mio turno

e non renderò la vita degli altri miserabile.

Il sole è tornato, per fortuna.

Alla prossima fila.