Ad ognuno il suo, parlando di divieti

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Nel post entusiasmo per l’uscita del film Joker, era inevitabile leggere di gente che si è ritrovata in sala in compagnia di ragazzini, in barba al vietato ai minori: negli Stati Uniti infatti ha ricevuto un rating R (vietato ai minori di 17 anni). Certo, è andata meglio in Europa dove invece i teenagers sono potuti andare tranquillamente al cinema: in Italia è stato vietato ai minori di 14, in Regno Unito a quelli di 15 anni.

In un mio vecchio articolo ho parlato del PEGI riguardo i videogiochi, spiegando come per ogni gioco ci sia il pubblico adatto; con i film è la stessa cosa, ad ognuno il suo.

E non parliamo dell’uscita al cinema di IT, che sia il primo o il secondo capitolo non importa, c’erano sempre persone ben sotto l’età consigliata a guardarsi il film.

Ehi, ma se io voglio vedere un film horror a 15 anni perché mi piace, chi sei tu per vietarmelo? 

Ma proprio nessuno, anzi, complimenti che ci riesci senza problemi: a volte per quanto riguarda certe trame, bisognerebbe prendere in considerazione la maturità del ragazzo in questione.

Esempio. Alla fine del primo superiore, un giorno di giugno alcune mie compagne di classe decisero di passare le ore di buco mettendo su un film, con tanto di serrande abbassate: 1408, un film basato su un racconto di Stephen King, un horror ovviamente.

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Ricostruzione di come vidi il film 1408 in classe.

Risultato? Per due notti di fila ho ficcato la testa sotto il cuscino.

Ero pronta per vedere un horror? No, ma dieci anni dopo sono diventata la prima ad andare a leggersi storie horror. Una volta sarebbe stato impensabile anche solo guardarmi IT, i jumpscare mi facevano venire tre infarti e i capelli prematuramente bianchi.

Si cresce, si cambia, si matura.


Con questo però non giustifico quei genitori che si portano i bambini a guardare film per adulti: come posso dimenticare Deadpool, il supereroe senza alcun freni? Ricordo che in sala in Italia, vidi un papà in compagnia dei figli che non avranno avuto più di 13 anni entrambi.

Non so se poi questo signore fu fra quelli che criticarono i creatori del film per aver osato scandalizzare i loro fragili angioletti: ma tu che potevi leggere il divieto e tenerteli a casa, no, eh? Supereroe non è sinonimo di roba per bambini, basta leggersi la trama di The Boys di Amazon Prime per rendersene conto, con personaggi grezzi, violenti e pure trasgressivi.

Insomma, per andare sul sicuro leggete sempre il divieto dei film, poi valutate se andarci o meno: qui in UK ti chiedono la carta d’identità, cosa che non ho mai visto fare in anni di film al cinema della mia città (son dettagli).

Buona visione, che sia pure un cartone animato di Barbie.

Lasciate in pace i videogiochi, non ti rendono violento

Era ovvio che la lobby delle armi americana non potesse stare zitta troppo a lungo: nel giro di 24 ore dai massacri che ci sono stati in Ohio e in Texas questo weekend, sono corsi a dare la colpa ai videogiochi. Ogni volta che c’è un massacro, si cerca di dare la colpa agli altri: internet, musica metal, satanismo, droghe, bullismo.

Guarda caso, non è mai colpa delle armi, macché. Tanto, per certi tipi arancioni con il parrucchino, tutto si risolverebbe vendendo più armi alla gente, così da fare il Far West per le strade del mondo moderno.

E non parliamo di quando capita un massacro scolastico: come si risolverebbe in quel caso? Si vieta a un ragazzo minorenne di comprare facilmente una pistola? Se ne discute seriamente mettendo come priorità la salvaguardia della vita delle persone? Ma quando mai: basterebbe dare le pistole agli insegnanti.

Dopotutto, stiamo parlando del paese che produce armi rosa e blu che sembrano dei giocattoli ma che non lo sono affatto: la tua piccola stellina può imparare a sparare al tuo fianco, iniziando con le bottiglie di vetro e finendo una decina di anni dopo con i suoi compagni di classe.

Vai in guerra, mica a scuola.

La violenza negli sparatutto e nella musica

I videogiochi che secondo alcuni grandi luminari dovrebbero essere vietati per scongiurare stragi nella vita reale, sono i first person shooter (FPS) ovvero gli sparatutto in prima persona. Per chi non se ne intende, sarebbero quei video giochi dove la visuale coincide con quella del personaggio, sparando a destra e a sinistra nemici a più non posso.

Screenshot del primo gioco di Doom, Wikipedia

Doom fu il primo ad essere additato come causa del massacro della Columbine High School nel 1999, quando si scoprì che i due studenti autori del massacro erano degli avidi giocatori di questo gioco. In quel caso, accusarono anche il cantante Marylin Manson e la band tedesca Ramstein, come se fossero state le loro canzoni ad invogliare quei due ragazzi ad uccidere.

Ovviamente è risaputo che tutti i loro fan siano dei pazzi assassini, ai concerti muoiono tutti ogni volta, che strazio.

Ma per favore, va, siamo seri.

La PEGI

Vi svelerò un segreto: oggi, esiste un sistema di classificazione dei videogiochi che permette al bravo genitore di scegliere il gioco adatto all’età del proprio pargolo. Negli Stati Uniti c’è la ESRB (Entertainment Software Rating Board), mentre in Europa abbiamo la PEGI (Pan European Game Information), divisa in fasce di età in base al contenuto.

Sono i videogiochi per tutti, che possono essere quelli sportivi o quelli di Super Mario Bros, per fare un esempio. Non si traumatizza nessuno, pace fatta.

Sono i videogiochi dove possono spaventarsi i più piccoli, magari hanno un mostro o fantasma stilizzato che spunta all’improvviso mentre stai facendo correre la macchinina di Cip e Ciop e allora puoi restare turbato se hai 3 anni.

Ne fanno parte i videogiochi per i pre-adolescenti: ci può essere della nudità non troppo esplicita, della violenza o qualche parola di troppo che non sarà mai peggio di quello che si sente in TV. World of Warcraft e Legend of Zelda sono PEGI 12, ma anche il simulatore di vita The Sims.

I giochi di questa categoria hanno una violenza più realistica, qualche personaggio potrebbe parlare di alcool, droghe, sesso ma non ci troverete della pornografia. La serie di Uncharted, dove si interpreta un cacciatore di tesori stile Indiana Jones, ne è un esempio.

I giochi vietati ai minori possono essere più espliciti per quanto riguarda la violenza, le scene di sesso, menzione e uso di droghe e alcool. Ne fanno parte videogiochi di guerra, sparatutto come Bioshock o Doom, ma anche la serie di Assassin’s Creed. A volte ci sarà sangue a quantità, altre volte sarà solo un horror psicologico che non vi farà dormire la notte oppure una semplice visual novel (storia narrativa) dalle trame piccanti.


Sì, è pazzesco! Un genitore può evitare di comprare un gioco violento al figlio leggendo la scatola del gioco!

Incredibile!

Se dei ragazzini delle medie riescono a giocare a giochi vietati ai minori come Grand Theft Auto, mettendo sotto la gente con le macchine senza che i genitori lo sappiano, di chi è la colpa? Della Rockstar che ha osato pubblicare il gioco in primis o del genitore che non si è informato abbastanza?

Giochi online e Battle Royale

Idem per quanto riguarda Fortnite o Minecraft che vanno fortissimo tra i giovanissimi: sono giochi PEGI 12, peccato che però ci giochino pure i bambini delle elementari. Inoltre, Fortnite è un gioco online, vale a dire che si gioca su internet e in chat vocale non vi dico le dolci parole soavi che volano dalle cuffie. Obbiettivo del gioco? Ammazzare tutti e restare l’unico sopravvissuto.

Ovviamente, questa modalità di gioco è palesemente ispirata al libro Battle Royale di Koushum Takami dove dei ragazzini delle medie vengono scelti per un sadico programma governativo e mandati su un’isola a combattere l’uno contro l’altro fino alla morte. Se il libro è una forte critica sociale e politica, il gioco è solo un amazza-distruggi-ammazza.

Ah, il libro è chiaramente per un pubblico adulto, tanto per dire.

Per finire

Vi svelo un segreto, che tanto segreto non è. Anche io ascolto i Rammstein di tanto in tanto, al liceo andavo in giro con il camicione alla Kurt Cobain o mi truccavo pesantemente gli occhi che a fine giornata sembravo un panda strafatto. Ci sono state delle giornate che avrei dato fuoco alla scuola, ma quelle quattro mura stanno ancora in piedi.

Gioco tutt’ora a videogiochi ritenuti violenti o pericolosi e sono maggiorenne, sia chiaro. Per farvela semplice, in Bioshock interpreti un poveraccio che cade con un aereo di linea nel mezzo dell’Oceano e finisce in una città segreta sotto il mare; qui deve ammazzare la gente che è uscita fuori di testa per colpa di una droga e lo attaccano da tutte le parti con tanto di palle di fuoco.

Non mi sono mai drogata per cercare di acquisire poteri paranormali, né mi è mai venuta voglia di andare a sparare con un fucile a pompa in piazza; semmai mi è venuta voglia di scriverci sopra le peggio storie, perché la trama è divina e non ci ho reso giustizia con la spiegazione dozzinale qui sopra. Mea culpa.

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Collezione della serie Bioshock, ambientata nella città sottomarina di Rapture e Columbia tra le nuvole… “There’s always a lighthouse, there’s always a city, there’s always a man.”

I videogiochi non sono la causa della violenza negli Stati Uniti: si gioca in tutto il globo, eppure i massacri così gratuiti avvengono lì come se fossero la normalità. Pensare di non poter andare a fare la spesa in tranquillità o di doversi preoccupare che in classe possa piombare un tuo compagno di scuola con un fucile d’assalto è da pazzi.

Lasciassero in pace i videogiochi e la musica, cominciassero a farsi un serio esame di coscienza.

Grazie.

Video games ruined my life, good thing I have two more. ❤️❤️

I video giochi mi hanno rovinato la vita, per fortuna ne ho due in più. ❤️❤️

Racconto di Una Vacanza Studio in Irlanda 2010: zainetti fluo in spalla

Irlanda

Estate significa anche periodo delle vacanze studio all’estero. Con il passare degli anni, è diventato comune per tanti ragazzi partire e stare via per un paio di settimane ad imparare la lingua del posto. Oddio, imparare, che parolona: sicuro tutto fai durante quelle vacanze, tranne che imparare la lingua. Ne so qualcosa perché partecipai a una vacanza studio ben 9 anni fa; pensando di finire in Inghilterra, venni sorteggiata per andare in Irlanda a Bunratty.

Avete presente quelle pubblicità che fanno vedere ragazzi e ragazze sorridenti, tutti abbracciati sotto un sole (finto) in Inghilterra? Gli slogan sono parole alla rinfusa del tipo, IMPARA L’INGLESE ALL’ESTERO, VIENI CON NOI! GRUPPI STUDIO IN ALLEGRIA! GIOVANI E BELLI! INGLESE! ESTEROOOOOO! DIVERTIMENTO, MUSEI, NATURA, AMICIZIAAAAAA!!!

Ecco, diciamo che la realtà è ben diversa: tutto è soggettivo.

Il Primo Giorno

Dovevo stare via due settimane, anche se ai miei occhi sembrano mesi, visto che non ero mai stata per così tanto tempo via da casa. In oltre, mi dispiaceva non poter passare le giornate estive con Fidanzato(ino): stavamo insieme da soli 3 mesi. Ah, i vecchi tempi, ma che ne sapevo io che poi stavamo ancora qua, eh già? Povero ragazzo.

Ricordo poco e niente del primo giorno, manco avessi ricevuto una botta in testa. All’aeroporto salutai la mia famiglia per mettermi in mezzo ad un enorme gruppo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 17 anni: avevamo tutti una faccia da zombie e stringevamo le valigie come salvagenti. Credo fossero le valigie a trascinarci a zonzo alla ricerca del famigerato gate, ma non ne sarei poi tanto sicura.

C’erano dei Group Leader, dei ragazzi tra i 25 e i 30 anni, con in mano liste di nomi e nomi. L’appello sembrò non finire mai, così come non sembrò arrivare mai il momento di salire sull’aereo. Trovato il posto, mi infilai in quel micro sedile accanto al finestrino; vicino a me capitarono due ragazze che viaggiavano in aereo per la prima volta, in più si conoscevano perché della stessa zona di città.

“Uh che bello, non sono mai stata in aereo, tu?”

“No, no, io ci sono già stata,” dissi spavalda, anche se il mio colorito cadaverico sembrava confessare l’esatto contrario.

Ringrazio che arrivammo sani e salvi a destinazione.

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L’Aeroporto di Shannon era veramente piccolo, ma veramente piccolo, non scherzo: vedevi la torre di controllo, il parcheggio e le piste di atterraggio. Fine. Avete presente gli aeroporti giocattolo? Quelli sono più maestosi. Ad oggi non so come sia, ma immagino che almeno uno Starbucks ce l’abbiano messo, altrimenti ti ingozzavi solo di patatine rigorosamente alla cipolla dalla macchinetta.

Quel giorno c’era la desolazione.

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Avremmo alloggiato presso queste casette parte di un centro specializzato per conferenze: sembrava di stare in un villaggio a sé stante, dentro lo Hobbit. Ogni casetta ospitava fino a 6 persone, visto che aveva 3 stanze da letto (2 sopra, una sotto); nonostante fossero attrezzate con un salotto e una cucina, non la utilizzavamo poiché tutti i pasti si svolgevano nell’edificio comune (qualche ragazzo provò a cucinare pasta aglio, olio e peperoncino a mezzanotte, ma declinai l’invito per amore della mia salute).

Rifocillati, la sera formarono le squadre, nonché i gruppi con i quali avremmo passato la maggioranza del tempo. Non dico che sembrasse Hogwarts con tanto di case, ma quasi: avremmo dovuto prendere punti durante i giochi la sera e a fine viaggio ci sarebbe stato il vincitore. Il nome delle squadre erano le città irlandesi: Cork, Kilkenny, Sligo, Waterford, tanto per creare una sana competizione… Sana, certo! Alcuni la presero così sul serio, pareva che stessimo partecipando al Torneo Mondiale delle Vacanze Studio, ma dettagli.

Chiamarono il mio nome e poi quello di un’altra ragazza: così venivi a sapere chi fosse stata la tua compagna di stanza.

E che ci vuole.

Mi feci largo fra la folla, uscendo fuori in corridoio per andare a recuperare la mia valigia (puntualmente era stata infilata dietro millemila valigie).

“Ciao, piacere.”

“Ciao.”

Due settimane a dormire con persone sconosciute, dentro casette condivise, con ragazze mai viste prima.

Non vedevo l’ora.

L’Inglese, l’Orario e il Trenino

Le lezioni si svolgevano la mattina fino all’ora di pranzo, poi il pomeriggio si andava in gita per i dintorni. A giorni alterni, poteva capitare di fare lezione il pomeriggio, mentre il weekend era per le visite alle città o ai musei. Gli insegnanti erano del posto, quindi si parlava solo in Inglese e si facevano svariate attività, come rendersi ridicoli davanti a tutti cantando, ballando o recitando.

Essendo pieno luglio, la maggioranza dei ragazzi avrebbe preferito di gran lunga rimanere a dormire piuttosto che buttarsi giù dal letto… Ma se non ti alzavi, arrivava il capo gruppo a trascinarti in aula e poi scattavano pure le punizioni.

Sì, perché le lezioni iniziavano per le otto e mezza, mentre la colazione veniva servita dalle sette e mezza in poi; se si pensa che le attività serali stile villaggio turistico (tunz tun tunz, su le maniiiiii) finivano alle undici, fate i conti di quante ore riuscivamo a dormire a notte.

Niente.

Non dormivamo niente.

Secondo voi, dei sedicenni andavano a dormire ligi al dovere? Ma ovvio che no! Vuoi mettere fare baldoria fino alle due, cantando stornelli romani a squarcia gola tra le vie delle casette? Poi cosa racconti quando torni a casa, che hai studiato solo inglese?

Per raccontare un aneddoto esilarante, una sera finita l’ennesima serata con i quiz e musica irlandese, mi fiondo a letto stanca morta: il giorno dopo saremmo dovuti andare in gita alle Cliff of Moher, non proprio dietro l’angolo di Bunratty. La mia compagna di stanza sarebbe tornata più tardi, perché voleva passare del tempo con altre ragazze del gruppo, così come il resto delle coinquiline.

Ero sola in casa, lasciata con la serratura aperta: questo perché essendo solo noi nel residence privato, le casette restavano per lo più aperte, in barba alla sicurezza.

Tanto in Irlanda non succede mai niente. ☘️

Poi li sento, sempre più vicini.

Un canto, delle urla di gioia.

“PEPE PEPE PEPE…”

Accigliata, scendo dal letto, mi affaccio alla finestrella: un trenino festoso di un’altra squadra che saltellava per la piazzetta, si stava avvicinando sempre più alla porta della mia casetta.

Gireranno, pensai, torneranno indietro.

Il primo della fila saltella verso la porta, gli altri lo seguono.

Ckick.

La porta si spalanca.

“PEPE PEPE PEPE PEPE!!!”

Capodanno.

Non è luglio, è Capodanno.

Esco dalla porta della camera in pigiama, capelli da tutte le parti, occhi e bocca sbarrati. Guardo giù per le scale: il trenino di ragazzi si fa il giro per il salottino, li sento in cucina, poi escono.

L’ultimo mi guarda estasiato e chiude la porta dietro di sé.

Clunk.

Grazie.

Cala di nuovo il silenzio in casa.

Cosa è successo?!

Il giorno dopo quando lo racconto, la mia compagna di stanza non ci crede.

Guardo le Cliff of Moher e mi chiedo se non fossimo tutti sotto effetto di qualche magia celtica.

Forse sì.

Gli Zainetti

Immancabilissimi in ogni vacanza studio, sono gli zainetti fluo: li sgami subito nelle grandi città, orde di ragazzini con in spalla dei semafori che li rendono visibili anche al più distratto dei capo gruppo. Alcuni hanno anche delle targhette al collo identificative o dei badge, ma ai miei tempi ringrazia se ti davano un cappellino brutto.

Per dire, il mio zainetto era giallo fluo, che a fine esperienza divenne più color ocra. Venne ricoperto di firme e disegni, solo perché lo stavano facendo tutti: ci rimasi un po’ male che qualcuno della mia squadra pensò che fosse simpatico cancellare la scritta stampata sopra con la penna. Da lontano sembrava una grossa macchia di inchiostro, manco l’avessi usato come straccio per pulirci terra.

All’estero questi zaini resistono a tutto: piogge torrenziali tipiche del Nord Europa, caldo improvviso, neve, grandine, tempeste, uragani. Sono usati come cuscini per la testa, teli mare, tappeti per non toccare l’erba dei parchi, palloni da calcio o pallavolo. Dentro ci finisce il panino, la bottiglietta dell’acqua, penne delle lezioni mattutine rigorosamente senza cappuccio così da riversare inchiostro ovunque, gomme da masticare spacciate come droga sul bus.

Ma stai sicuro che una volta tornati in patria, tempo un paio di settimane si autodistruggeranno: quello che usi al viaggio studio, resta nel viaggio studio.

La Visita al Castello di Re John

Portami in giro per musei o castelli, mi rendi la persona più felice del mondo. Mi sono sempre piaciuti sin da piccola, chi conosce i dintorni di Latina saprà del Castello Caetani nonché il Castello di Sermoneta. Crescendo lì fa parte del panorama, diventando familiare come il promontorio del Circeo quando vai al mare (è ancora uno shock non vederlo).

Quindi, saputo che avrei visitato il King John’s Castle – Castello di Re John a Limerick, ero fuori di me: è un piccolo gioiello medievale.

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La foto al cortile interno qui sopra l’ho fatta io, ma credo non renda l’idea: guardatelo nel suo splendore qui sotto grazie al potente mezzo che è Internet. Si tratta di uno dei castelli Normanni meglio conservati fino ai nostri tempi.

By Eric The Fish – Flickr: Limerick Castle, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15538452

I corridoio erano stretti, camminare tutti insieme era un’impresa, così come poter leggere qualcosa dai cartelloni informativi.

Già è difficile che si segua una guida, figurarsi quando si è da soli. Caos totale, schiamazzi e tanto freddo: come se non fosse abbastanza, quel giorno si mise pure a piovere (ma va), finendo zuppi da capo a piedi nonostante i k-way, giacconi impermeabili e stivali imbottiti. No, nemmeno lo zainetto a mo’ di cappuccio poté aiutarci sotto quella pioggia.

Re John almeno se la spassava all’asciutto.

Beato lui.

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Chiamare Casa e l’Era Pre-Social

9 anni fa se andavi all’estero e volevi chiamare casa dovevi abbonarti a quelle tariffe ridicole che ti davano un tot minuti da usare all’estero, non uno di più, non uno di meno. Una volta finiti, addio, i centesimi venivano risucchiati in un vortice e non li avresti rivisti mai più.

Praticamente spendevi un capitale solo per il telefono.

Quindi, se oggi i ragazzi che girano l’Europa possono permettersi di chiamare casa, usare WhatsApp, mandare foto istantanee alla nonna sul cucuzzolo della montagna, quando sono andata io le cose erano del tutto diverse.

Nessuno aveva internet al cellulare, se non una ragazza che possedeva quello all’ultimo grido: era un Blackberry con la tastiera e poteva connettersi anche in giro sul bus. Basti pensare che se il primo iPhone venne messo in commercio a fine 2007, nell’estate 2009 era impensabile tutto il can can dei social di oggi. Certo, Facebook lo usavamo e pure tanto, ma al computer una volta a casa. E di certo, in vacanza studio l’ultima cosa che potevi vedere era proprio lo schermo di un PC (ho sofferto per questo).

Facemmo la foto al foglio della lista dei nomi per poi andarli ad aggiungere uno ad uno a casa, mandando richiesta d’amicizia in lungo e in largo: qualcuno pensò di farlo subito all’aeroporto il giorno del ritorno, usando dei computer che ti permettevano di connetterti al web a 50 centesimi per 5 minuti.

Altro che WI-FI gratis, rete pubblica, what is it?

Posso dire con certezza che se 9 anni fa avessi avuto il cellulare con internet a disposizione, probabilmente avrei sofferto meno la solitudine, ma dall’altra non sarei diventata un po’ più indipendente.

Pro e Contro

Potrei parlare seriamente e dire come questi viaggi studio ti facciano visitare luoghi lontani dalla periferia di casa, siano opportunità per chi altrimenti non potrebbe andare ad imparare la lingua e via dicendo…

Ma poi non la racconterei tutta.

Se non sei un tipo socievole, l’amicizia vera la trovi solo nel tuo zainetto fluo fidato. Se poi metti caso sei un attimino più bravo di altri, potresti attirare la loro cattiveria gratuita manco fossi a scuola. Mettici anche che preferisci andare a dormire piuttosto che andare a ballare la sera (e non ci sta niente di male a farlo, eh, sia chiaro) ecco che hai firmato la tua condanna.

Conobbi una ragazza della mia squadra che aveva i miei stessi gusti (musica, film, gente), finendo per passare il tempo libero insieme in giro per le città. Ci sono stati dei momenti divertentissimi con lei, come quando all’ora di pranzo pensammo bene di andare a comprare del pane da toast e del formaggio per fare dei panini, sedendoci fuori dal supermercato; aprimmo la confezione e ci accorgemmo di aver preso il pane in cassetta intero. Ovviamente non avevamo il coltello nel fantomatico zainetto fluo, così da doverci improvvisare MacGyver e formare dei panini da quel mattone di pane.

E non posso non dimenticare la serata a tema Riverdance, quando ci misero tutti nell’enorme sala conferenza a tentare di insegnarci il tipico ballo irlandese: se le due ballerine invitate erano aggraziate, tutti noi eravamo dei brutti troll in preda a degli spasmi. Qui potete ascoltare Riverdance – Reel Around The Sun, mettetevi le cuffie ed immaginatevi la scena idilliaca.

I paesaggi dell’Irlanda mi sono rimasti nel cuore, sono mozzafiato, quindi il viaggio ne è valso solo per quello. Ho visto l’Oceano Atlantico che non pensavo certo di vedere dal vivo, se non su Discovery Channel sul divano di casa mia la mattina mentre mangiavo lo yogurt.

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Le Cliff of Moher: le guardi e subito ti senti Jon Snow in Game of Thrones.

Ma di certo non si impara chissà quanta lingua in questi viaggi, visto che comunque sia sarai sempre circondato da compagni italiani. Magari può capitare di dover chiedere “How much is it” in un negozio di souvenir, biascicare un paio di “excuse me” ma poi bon, arrivederci. Qualcuno sopravviverà anche facendo versi gutturali con una calamita in mano per attirare l’attenzione della commessa part time, non cambierà niente.

Tanto come minimo, va a finire che il commesso è pure italiano.

Due settimane di lezioni non ti danno la conoscenza della lingua, semmai ti fanno innamorare del luogo e della cultura: ma da cosa nasce cosa, si spera.

Educazione Digitale

Tanto tempo fa a scuola si faceva Scienze Sociali (o Studi Sociali), che più avanti divenne Educazione Civica, anche se poi venne scartata per tagliare ore di scuola. Dopo le infinite riforme scolastiche, ora come ora, un ragazzo che andava a scuola per sei ore, adesso ci va per quattro o cinque e con la stessa roba da studiare.

Ritengo sia un gran peccato che spesso molte ore di scuola vengano sprecate, buchi di noia sono riempiti da messaggi e schiamazzi: per lo meno, ricordo giornate cariche di nulla, rinchiusa in una classe minuscola, affollata e soffocante.

Avrei preferito imparare qualcosa di più sulla politica, diritto ed educazione stradale (che vengono date molto per scontate in certi indirizzi), senza dovermi andare ad informare io da sola: a volte pur andando a scuola, se non sei tu a prendere l’iniziativa, potresti non imparare nulla.

Grazie scuola italiana!

Ma veniamo a noi… Ecco, se potessi decidere, metterei delle ore obbligatorie di Educazione Digitale in tutte le scuole: Internet ormai è parte integrante delle nostre vite e penso sia una vergogna che ci siano ragazzi ignari delle sue potenzialità.

Internet non è solo social, è un forum romano, dove scambiarsi idee ed opinioni per poter creare qualcosa di grandioso. 

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Spesso, si sottovaluta l’importanza del tenere per sé certi ricordi, come foto, audio o video…

Esistono corsi on-line che ti insegnano a fare di tutto, dalla programmazione al disegno della figura umana, come Udemy; ci sono siti che ti aiutano nello studio come Shmoop, facendoti divertire mentre devi imparare tutto su Blake; su Change o Kickstarter si possono realizzare progetti impensabili con il supporto di persone da tutto il mondo; altri ancora, ti regalano ore ed ore di lettura tra Fan Fiction e storie originali.

Il mare del web è affascinante, certo, ma bisogna ricordare che è pur sempre pericoloso. Oggi, nome e cognome si dà via con più facilità di dieci anni fa, quando l’idea di Facebook spaventava ancora un po’: fui fra le ultime della mia classe a iscrivermi nel 2009, quando era una novità assoluta nella mia scuola.

Spesso, si sottovaluta l’importanza del tenere per sé certi ricordi, come foto, audio o video: non c’è bisogno di condividere tutta la propria vita con il web, anche perché non sai mai chi può esserci dall’altra parte dello schermo a guardare il video in cui ti diverti con i tuoi amici. Ovviamente, una soluzione è quella di non aggiungere mezzo mondo alla propria lista di amici su Facebook, controllando anche le impostazioni della privacy.

Bambini e tecnologia: cocktail esplosivo

Tantissimi ormai sono gli adulti che per tenere a bada i propri figli più piccoli, gli consegnano i loro cellulari, senza controllarli. Certo, ci sono quelli che si attrezzano con qualche giochino innocuo o con un cartone animato (ovviamente, scuso solo quelli che non mettono il volume a 100 magari in una pizzeria, facendo sentire a tutto il locale l’ultima puntata di Peppa Pig), ma altri li lasciano liberi di andare ovunque sul web senza pensare su cosa potrebbero cliccare.

Ho sentito di bambini che hanno settato la lingua del cellulare in croato alla mamma, altri che hanno sprecato tutta l’offerta internet del padre scaricandosi video su video de La Casa di Topolino – e sto parlando di bambini di età inferiore ai cinque anni. Un’altra bimba aveva intasato la memoria del tablet della nonna, che poveretta non riusciva più ad usarlo da quanto lento ormai andava.

Eh, certo sono proprio svegli i bambini di oggi! No, sono esattamente come i bambini di venti, trenta, quarant’anni fa: semplicemente, imitano l’adulto. Passi le ore al cellulare a strisciarci sopra il dito? Lo farà anche tuo figlio. Già. Negli anni ’60 nessun bambino vedeva la propria mamma con un tablet, a meno che  non fosse uscita da Star Trek, quindi mi sembra più che logico che nessun bimbo si mettesse a strisciare il ditino su una rivista.

Per concludere

Mi auguro che andando avanti nel tempo, le persone stiano più attente con la tecnologia: una foto innocua messa sul web resterà lì per sempre, può tornare a farti del male anche dopo anni, magari perché qualcuno vorrà farti un dispetto. Ci vuole la testa, come con tutte le cose. Non mettetevi nella condizione di ritrovarvi con le spalle al muro per una stupidaggine commessa quando si era adolescenti, attenti sempre a quello che scrivete. Insegnate ai bambini come usare questo strumento importantissimo, a proteggerlo e a renderlo un posto migliore.

Navigate in acque sicure, divertitevi ed imparate, ma con coscienza. 

Passo e chiudo.

Cose che accadono (quasi) sempre quando vai al cinema

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Andare al cinema piace a un sacco di gente: l’emozione di guardare un nuovo film, la compagnia di amici o parenti, i popcorn… Bello, sì, tutto bello. Peccato che nella realtà, le cose siano molto, molto diverse! Basta poco per rovinare una bella uscita.

  1. Il tipo alto che ti si mette puntualmente davanti: è una vera e propria tragedia, sopratutto quando sei ancora bambino. Una volta, ricordo che andai a vedere un cartone animato e all’ultimo mi si sedettero davanti dei tipi usciti da una squadra di basket. Praticamente, feci ginnastica per tutto il tempo del film, dondolandomi come una scimmietta: inutile cambiare posto, ormai era troppo tardi e la sala era piena.
  2. I bambini che piangono, che ridono o che schiamazzano: ci sta seguire il film con entusiasmo, ma non puoi passare l’intero film a chiedere “perché Iron Man ha detto questo?” “perché ha fatto quello?”, come se tua mamma abbia scritto la sceneggiatura del film. Sssh, tesoro, chiudi la bocca e guarda! Non sei da solo in questa grande sala. Lo so, dispiace anche a me, la prossima volta restiamo a casa che è meglio.
  3. La gente che mangia: durante alcuni film, la più bella colonna sonora non è composta da Hans Zimmer o Alan Silvestri, ma dal pubblico in sala che con le sue ganasce fa impallidire i più bravi percussionisti del mondo. Popcorn, barrette di cioccolata, patatine, non importa cosa! State tranquilli che sarete cullati da magiche sinfonie dentali.
  4. La luce improvvisa nel buio completo AKA il cellulare di qualche tizio che ha bisogno di sapere che ore sono, mandare un messaggio, rispondere ad una telefonata improvvisa “eh, no, sono al cinema, SONO AL CINEMA NON POSSO PARLARE!!! Sì, sì, ciao, ciao.” E tu stai lì, mezzo accecato, sentendoti come se avessi appena avuto una visione mistica.
  5. Le comitive chiassose: a seconda dell’età si distinguono fra la comitiva adolescenziale che si lancia il cibo da una fila all’altra emettendo gridolini eccitati, e la comitiva di famiglia costituita da mamme, zie, cugini, passeggini, nonni, vicini di casa. In queste comitive è possibile trovare molti bambini del punto 2.
  6. Il pavimento porcile: si riaccendono le luci in sala, prendi la tua giacca e la la borsa, ti metti in piedi e… Oh. No. Ti prego, No. Sei circondato di resti di lattine di bibite gassate, sacchetti vuoti stropicciati e ti senti protagonista di The Walking Dead, chiedendoti se fuori dal cinema troverai gli zombie ad aspettarti o se per caso ci sei stato assieme per due ore. A passo lento, devi scavalcare qualche cadavere, ma alla fine esci e puoi respirare l’aria fresca della putrida città. No, non è iniziata la fine del mondo. AH! Cosa ho sotto la scarpa? Oh, resti di popcorn con una cicca masticata. Che bello!

Quando andate al cinema, rispettate chi è in sala con voi e si vuole godere un bel film in santa pace; ma soprattutto, non sporcate la sala “perché tanto poi puliscono”, facciamo le persone civili.

Grazie.

(E grazie anche a te, ignoto, che sputi la gomma a terra)

Buon cinema a tutti!

(Adesso, posso andare a vedere Deadpool 2)