The Beatles Story Museum – Liverpool

Di tour, bus e musei sui Beatles non ne mancano di certo a Liverpool, città natale di una delle band più influenti e famose al mondo. Al che per scegliere, mi sono fidata di Tripadvisor e devo dire di aver fatto bene: The Beatles Story merita sicuramente una visita, o più di una se siete grandi fan.

L’entrata del museo

Situato nel suggestivo Royal Albert Dock, è difficile farselo scappare: la musica dei Beatles risuona per il quartiere, facendo da sottofondo ai vacanzieri seduti ai tavolini del locale poco più in là: ci passi 10 minuti e ti rendi conto che fanno passare però le stesse 3 canzoni messe in croce di 13 album e quintali di materiale. Mmm. Però vabbè, chissene frega, si scendono le scale e si va dritti a fare i biglietti, prendendosi anche l’audioguida inclusa nel prezzo.

Si segue un percorso ben delineato, dalla nascita dei Fab Four, alle prime band e concerti in simpatia; al periodo in Germania e il Cavern Club di Liverpool, quest’ultimo ricreato nello spazio del museo.

Ricostruzione del Cavern Club

Praticamente ancora ragazzini, con le giacche di pelle e pantaloni attillati, avevano riscosso non poco successo. Ascoltando la mia guida, mi veniva da sorridere a pensare a queste signore che una volta facevano carte false per restare fuori fino a tardi per andarsi a divertire, bere e stare in compagnia: un po’ come quando avrei pagato oro per starmene le ore sotto l’Intendenza di Finanza a Latina, ad atteggiarmi da grande ad ascoltare i Nirvana. Certo, queste signore possono dire di avere avuto a che fare con i Beatles: quindi non me ne voglia Fidanzato che resterà sempre il mio batterista preferito dopo Ringo Starr.

Un biglietto per i Beatles al Cavern Club

E quindi non può mancare la storia di Brian Epstein, il manager della band nonché il “quinto” Beatles, e dello studio di Abbey Road. Lo spazio è stato riprodotto fedelmente ed è interessante affacciarsi per vedere gli strumenti lasciati lì, come se da un momento all’altro debba tornare qualcuno per suonarli. Durante la visita, finisce una track della guida e così ne cerco un’altra, mentre scatto foto a più non posso; c’è un gran silenzio, interrotto dai passi dei visitatori come me e per un attimo sembra di essere in chiesa.

Più avanti si parla della Beatlemania, al loro periodo negli Stati Uniti, dove sconvolgono le masse di teenagers con la loro musica: tutti li vogliono e tutti vogliono essere come loro. Non mancano quindi gadgets come magneti, cartoline, perfino calze con i volti dei Beatles su di esse… Passando prima per la riproduzione dell’aereo su cui viaggiarono!

Una sezione del museo è dedicata ovviamente a Yellow Submarine, il cartone animato psichedelico del 1968, nonché il film che per molti Millennials è stata l’introduzione ai Beatles: di sicuro lo è stato per me, tanto che per anni è stato un comfort movie, quel cartone che riguardi più volte con piacere e che non ti stanchi mai di seguire. Si parla anche del film Help! ovviamente, con tanto di locandina.

Molto interessante la parte finale della visita, con sezioni per il loro perido in India e singole zone dedicate ad ogni singolo membro della band dopo la rottura: c’è perfino la riproduzione della white room, famosa location del video di Imagine di John Lennon, oltre che i suoi iconici occhiali sotto teca.

Finita la visita riconsegni audioguida con cuffie annesse, ritrovandoti così nel café e successivamente nel negozio con souvenir di ogni tipo. Da brava ragazza che sono, ho pure fatto visita ai bagni che sono fantastici e in tema sottomarino giallo anche loro, ridevo come una scema mentre mi lavavo le mani e canticchiavo “She Loves You YEAH YEAH YEAH!”

Fuori ci sono 32°, il sole spacca le pietre e i camioncini vendono gelati al modico prezzo di 5£ a conetto(!!!). I gabbiani polletto fanno il bagno e un po’ fanno invidia, ma solo un po’, perché che ne vuoi che se ne faccia un polletto dei Beatles: non ne ha idea.

Qui il sito ufficiale del museo.

Liverpool: musei, Beatles e tanti, ma tanti treni

Quando viene consigliato di non viaggiare causa di possibili scioperi, uno non dovrebbe viaggiare affatto.

Giusto.

Ma quando sei già in viaggio e devi tornare a casa proprio quel giorno che cosa fai? Ve lo dico io.

***

Con Fidanzato siamo andati a Liverpool per 3 giorni, per andare a vedere un’esibizione su Doctor Who e anche per tutto quello che riguarda i Beatles. Ci sono tanti bambini ma anche tanti signori e signore che guardano la mostra con il sorriso stampato sulle labbra. Scatto miriadi di foto, penso di farci un articolo in futuro che meriti.

La quantità di musei da vedere è impressionante: se un mio vecchio collega di lavoro mi diceva che a Liverpool non c’è niente da fare, probabilmente non l’aveva vissuta da turista, un po’ come chi per lavoro o per studio vede il Colosseo tutti i giorni.

Abitudine.

Per quanto riguarda i Beatles, li mettono in ogni cosa: le strade, le vetrate colorate, i pub, chi dice che da qui è passato John Lennon un giorno, chi garantisce che sia passato da un’altra parte; e poi i ristoranti con il menù a tema, il Cavern Quarter dove suonavano da ragazzini, le placche commemorative, le statue. Andiamo al museo dei Beatles, riconosco tra gli oggetti un sottomarino giallo che stava a casa dei miei nonni: è fatto di metallo, mica plastica. Me lo porterei a casa ma c’è il vetro, lo lascio lì.

Passarci di venerdì sera è il caos, con gente sbronza ma felice che canta, balla, si abbraccia e fa festa in fiumi di birra. Metteteci anche un’ondata di caldo anomala che sta facendo preoccupare mezzo Regno Unito, ecco il cocktail perfetto.

***

L’Odissea

Ma di tutto il viaggio, cosa resta di più? Il ritorno. Svegliata la mattina avevo un brutto presentimento, e non era solo la cena della sera prima che tra l’altro era stata anche buona – Fish and Chips – sei in Inghilterra che fai non la provi? Ecco, controllando il nostro treno, vengo a sapere che non ce ne stava mezzo, o meglio: ci stava ma non era garantito. E quel “non garantito” puzzava parecchio.

Pensavo che avessero proclamato lo sciopero per tutta la nazione già giorni prima ma no, quella mattina si erano svegliati e a grappolo avevano deciso di cancellare treni uno dopo l’altro.

Cancelled, cancelled, cancelled.

Sale l’ansia, ma poco male, parli con il bigliettaio che ti stampa un nuovo biglietto, vai a Preston, trovi il treno laggiù. E va bene, se lo dice lui, ci crediamo. Ha perfino girato lo schermo del PC e me lo punta con il dito, è verde.

Il treno, non il suo dito.

Il regionale Liverpool-Blackpool è stracolmo di vacanzieri. Un uomo gioviale seduto allo stesso tavolino ci augura buona fortuna, dopo averci raccontato di come sia appassionato delle Red Arrows e dei Typhoons, che sarebbero come le nostre frecce tricolori. Sta andando proprio a Blackpool per lo show di quel giorno. Gli consigliamo di venire in Italia per vedere le nostre il giorno della festa della Republica, e lui se lo segna. Parla anche con i sassi, la gente affianco beve birra, è felice. Un ragazzino è emozionato e non riesce a stare fermo sul sedile, mi saluta. Io cerco di fare un sorriso tirato, penso che nella sfortuna abbiamo incontrato dei compagni di viaggio carini.

A metà tragitto, sul cellulare scopriamo che a Preston il treno per Edimburgo non c’è.

Scendiamo dal treno, saliamo le scale, scendiamo le scale, andiamo dal bigliettaio che è più deciso di quello di Liverpool.

“Dobbiamo andare a Edimburgo, il nostro è stato cancellato, ci sono altri treni?”
“Non ci sono treni per Edimburgo”

Io e Fidanzato restiamo in silenzio, al che già mi immaginavo a dormire a Preston. Che poi, cosa c’è a Preston? Boh, non ne ho idea. Non ho voglia di fare il turista ora come ora.

“Ma proprio niente? Manco una connessione?” Chiariamo che non ci importa del numero di cambi, basta che ci facciano arrivare a casa.
L’uomo fa silenzio, clicca sul tablet e clic clic clic “Potete andare a York. Da là cambiate e andate a Edimburgo.” Stampa un biglietto nuovo che ha la consistenza della carta di riso usata nelle finali di Takeshi’s Castle: semi-trasparente. L’unica cosa che ci garantisce di non spendere ulteriori soldi per dei biglietti extra è fragilissima.
Bene. Grazie.

Il treno nuovo parte fra 10 minuti e io ho la vescica che mi giudica, sembra dire “due ore e mezza sul treno non sopravvivi cara mia”. Ricordo lo stato del bagno sul treno l’ultima volta e voglio morire. E quindi io obbedisco, lascio i bagagli a Fidanzato, corro al bagno, cambiamo binario, assaltiamo il treno, prendiamo il posto. Voglio pensare positivo.

Attraversiamo il Regno Unito quasi in una linea retta, da occidente a oriente. Vedo città che non avrei mai pensato di vedere. Vedo Leeds, città che ricordavo solo perché ci era nato John Simm, attore inglese noto per Life on Mars o per il Maestro a Doctor Who. Interessante.
Manca mezz’ora a York e la gente intorno si è zittita un po’, qualcuno è sceso prima lasciando dietro la scia di immondizia – per lo più lattine di birra. Potrebbe andar peggio, il treno potrebbe essere stato cancellato. Il controllore vede il nostro biglietto e resta perplesso, manco fosse stato scritto in aramaico antico.

“C’è qualche problema?”

“Sì e no. Quando arrivate a York, chiedete a qualcuno se potete usare questo biglietto perché non sarebbe valido.”

Arrivati a York, ci rimbalzano da sportello a sportello, dove alla fine ci scrivono un biglietto a mano per pietà e lo timbrano perché pare che noi non dovevamo essere lì. West Coast e East Cost non sono collegate fra loro, pare. “Ma veramente vi ha mandato qualcuno dello staff della compagnia da Preston?” Sì, lo giuriamo. La carta di riso ne è la prova, non ce la siamo stampata da soli. Lasciamo una York allibita, povera gente.

Siamo stremati. “Non avrete i posti prenotati, ma potete andare sul treno diretto fra mezz’ora, va a Edimburgo.”

E chissene frega, mi sdraio anche nel reparto dei bagagli se devo. Usciamo dalla biglietteria e due ragazzi ci fermano: hanno lo stesso nostro problema, ci hanno sentiti ma a quanto pare, l’altro tipo dello staff gli ha fatto pagare il biglietto. Ops. Rientrano e li rimborsano, come giusto che sia. Qualcuno deve andare fino su al nord nelle Highlands, non sa come fare. C’è il caos.

Il treno arriva da King’s Cross, Londra, ed è puntualissimo. Una cosa che ho notato con gli scioperi qui, i treni che ci sono sono sempre puntuali: piuttosto che far ritardo li cancellano a priori. Favoloso. Mi arrampico sulla carrozza, troviamo un posto tra una famiglia irlandese in vacanza verso Newcastle e un ragazzo che è alla sua terza birra e si è tolto le scarpe perché sta a casa sua, con fette calzinate su sedile.

Qualcuno passeggia per i corridoi a piedi nudi.

Nuovi figli dei fiori.

Sono gli anni ’60.

Arriviamo a Edimburgo alle sei e mezza di sera dopo aver viaggiato tutto il giorno, ma arriviamo. La stazione è piena di gente, ricordiamo che c’è il Fringe.

Tiro un sospiro di sollievo.

Sono arrivata a Itaca.

Liverpool, Preston, York ed Edimburgo. Via treno solitamente non si va a York, devi avere sfiga.

5 Luoghi Curiosi o Bizzarri su Google Earth

Il Logo di Batman ad Okinawa – 26.357896, 127.783809

Il logo di Batman.

Nell’isola di Okinawa, famosa meta turistica in Giappone, è possibile vedere su Google Earth un bizzarro logo di Batman nell’aeroporto militare americano a Kaneda. Dopotutto, si tratta di un eroe pur sempre americano che ispira le truppe stanziate in quel luogo.

La faccia aliena – 72°00’36.0″S 168°34’40.0″E

Il volto nel ghiaccio.

In Antartide è possibile intravedere un volto nelle fredde montagne di ghiaccio: ovviamente si tratta di un effetto ottico, nonché un fenomeno di Pareidolia, cioè quel fenomeno di vedere volti in oggetti, disegni o paesaggi (ex. tra le nuvole, sulle auto, etc…)

Isola Hashima – 32.627778, 129.738333

L’isola Haashima su Google Earth.

L’Isola Hashima a circa un’ora di navigazione da Nagasaki, in Giappone è una fra le 505 isole disabitate della prefettura di Nagasaki. Era sede di un sito minerario, chiuso nel 1974, così da diventare ad oggi un’isola abbandonata e molto visitata dagli amatori dei luoghi abbandonati. Su Google Earth si può vedere in 3D, ma esistono anche molti video suggestivi su Youtube.

Il cimitero degli aerei – 32°08’60.0″N 110°50’09.0″W

Il cimitero degli aerei negli Stati Uniti.

Vi siete mai chiesti dove vadano gli aerei mandati in pensione? Negli Stati Uniti, Tucson, Arizona, esiste un cimitero degli aerei, messi lì da dopo la fine della seconda guerra mondiale che è possibile visitare: come si vede dall’alto è molto suggestivo! Aerei militari, di linea ma anche aerei più piccoli.

The Lion Point – 51.848637, -0.55462

The Lion Point a Dunstable.

A Dunstable in Inghilterra, c’è un grande leone disegnato su di un prato, poco lontano dallo Whipsnade Zoo: si chiama il punto del leone ed è molto interessante da vedere – da lontano ovviamente – perché da vicino sembra più una macchia bianca informe.


Ah, Google Earth, non cambiare mai.

L’Union Jack, bandiera del Regno Unito

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La famosa Union Jack.

Quando davo ripetizioni di lingua inglese, spiegare come fosse formata la bandiera del Regno Unito era una delle prime lezioni di introduzione alla lingua stessa. Troppo spesso, anche nei telegiornali, veniva scambiata per la bandiera dell’Inghilterra, quando magari si stava parlando di Scozia, Galles o Irlanda del Nord.

Avrei voluto che fosse stato più semplice ma ahimé, il Regno Unito ha una bandiera particolare, la conosciutissima Union Jack. Quando lo venni a sapere per la prima volta alle elementari fu una scoperta sensazionale, insomma, da rimanere con gli occhi sgranati a fissare il libro di inglese lucido e dall’odore di carta nuova.

Scrivete i nomi sotto le bandiere! Eh, buonanotte. Ricordo che scrivere sopra quei libri era complicato, visto che non c’era verso che la matita lasciasse il segno sotto le righe fatte apposta per inserire il nome; allora magari azzardavi ad usare la penna replay, inchiostrando tutta la pagina e pure la mano se per caso tu fossi stato mancino.


La bandiera della Scozia.

Sullo sfondo abbiamo il blu della Scozia con le strisce bianche diagonali, conosciuta anche come Croce di Sant’Andrea o The Saltire. La si trova sventolare nel centro città quasi più della Union Jack o insieme ad essa.

La bandiera del Nord Irlanda.

Le strisce rosse diagonali con lo sfondo bianco appartengono alla bandiera del Nord Irlanda, la Croce di San Patrizio.

Croce di San Giorgio
La bandiera dell’Inghilterra.

Le strisce rosse verticali ed orizzontali con lo sfondo bianco sono invece della bandiera dell’Inghilterra, la Croce di San Giorgio.

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La bandiera Galles.

Per quanto riguarda il Galles, non c’è alcun elemento della sua bandiera nella Union Jack, anche se il riconoscibilissimo drago era parte dello stemma della dinastia dei Tudor.


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Esempi di souvenir.

L’Union Jack oggi è anche sinonimo di design, visto che viene dipinta su più oggetti, souvenir e anche frigoriferi: ricorderò sempre il frigo in esposizione in questo negozio in centro città in Italia, sarà rimasto lì per anni ed anni. Ma era bello da vedere, dai, insieme alla pentola con gli spaghetti in vetrina.

Mentirei se dicessi di non avere mai avuto in casa cuscini, lenzuola o magliette: adesso in Scozia non si trovano così spesso, chissà perchè, ma un giro in centro vi permette di rifarvi l’armadio con la croce di Sant’Andrea scozzese.

Insomma, la prossima volta che vi trovate davanti un oggetto con sopra l’Union Jack con scritto erroneamente England, saprete di quale bandiera si tratti.

L’Inghilterra, no?

Del Regno Unito.

I soldi del Monopoli, quando l’effige della regina non c’è e vai in ansia

Un pomeriggio di sole sulla Old Town di Edimburgo

Lavorare al centro storico di Edimburgo significa essere assaliti dai turisti affamati di vacanze che non hanno potuto (giustamente) fare l’anno scorso: quindi ecco per lo più gente con accento inglese e borsone in spalla che ti chiede di tutto e di più, specialmente cavi USB e accendini che non vendiamo. Insomma, ci mancano solo gli accendini, li metto accanto alle penne, un po’ di cartone e via, faccio un bel falò.

No, non vendiamo lighters, nemmeno se mi fai il gesto di accenderti una sigaretta davanti alla faccia perché pensi che io non abbia capito: accetta che non io non venda accendini e non possa crearli dal nulla, non sarei qui ma al circo a fare la prestigiatrice.

Che ce l’hai una banconota inglese?

Qui ce lo chiedono sempre, mi ha detto una mia giovane collega, ci si abitua dopo un po’.

Il cliente random in questione mi allunga una banconota da 20£ per pagare 10£, gli allungo il resto e lo guarda come se gli avessi appena dato una banconota del Monopoli; anzi, forse quelle del Monopoli le avrebbe intascate subito per barare a Natale.

“Ehm, senti scusa, io domani torno in Inghilterra,” mi chiede nervoso, forse perché dietro di lui si stava creando una fila chilometrica da portare la gente allo sbuffamento, “non è che mi potresti dare una banconota inglese?”

Lo guardo, restando senza parole, pensando ad una risposta sensata e che non mi faccia licenziare.

  • La cassa l’ho appena chiusa, non posso riaprirla come mi pare senza una buona ragione da selezionare nel display: l’opzione il cliente voleva la banconota inglese non l’hanno ancora implementata;
  • Sei venuto in Scozia: cosa pensavi che ricevessi come resto nel momento in cui hai avuto la bella idea di pagare contanti? Biscotti al burro a peso d’oro? Potevi pagare con la carta.
  • Ridere in faccia al cliente pensando che si trattasse di un semplice caso di humour inglese.

Magari vi starete chiedendo che problema c’è, quindi vi metto il link alle immagini dalla vecchia Wikipedia per farvi visualizzare le differenze tra le banconote; le posterei sul blog ma non vorrei far credere alla Corona Britannica di star falsificando denaro. Come vedrete non c’è l’effige della regina Elizabetta e per chi non vi è abituato possono risultare alquanto originali.

Come anche spiegato su Wikipedia, le banconote scozzesi sono legali e generalmente accettate in tutto il Regno Unito: dico generalmente perchè, sempre da Wikipedia, le banconote scozzesi in Inghilterra non hanno corso legale, quindi i commercianti avrebbero tutto il diritto a non accettarle come valuta valida.

Facendomi un giro per il web, ho letto alcune esperienze negative di persone che con soldi Bank of Scotland non potessero pagare nemmeno un semplice biglietto del treno; allo stesso tempo, altre persone non hanno avuto alcun problema ed i cassieri non hanno battuto ciglio nell’accettarle.

Insomma, un gran casino a mio avviso, essendo ignorante per quanto riguarda valute e soldi.

Al cliente ho risposto che purtroppo anche volendo non avrei potuto aprire la cassa per quella ragione e che in Scozia si usavano tranquillamente quelle “loro”.

Eh, speriamo che le accettino,” ha borbottato, abbandonando la cassa.

Avevo una soluzione per il cliente: la prossima volta non venire in Scozia, oppure non pagare contanti.


Altre persone a cui ho dato resto in contanti sono rimasti un paio di secondi a guardare le 5 o le 10 sterline a bocca aperta, uscendosene con un “ma che belle che sono!” il che mi ha fatto sorridere.

Guardate il lato positivo su: se non ve le accetta nessuno, le potrete incorniciare e tenerle su di un muro come quadretto; un quadretto costoso, certo, ma pur sempre un bel quadretto 😛

Le Fate di Cottingley, come un semplice gioco ha preso in giro Arthur Conan Doyle

Le fate hanno fatto parte del nostro immaginario da tempo immemore, popolando i mondi fantastici di bambini e bambine durante lunghi pomeriggi di gioco. Chi non conosce Trilli, la fata amica di Peter Pan?

In Inglese le fate sono conosciute come fairies (plurale di fairy), piccole creature magiche dotate di ali e molto schive: non amano farsi vedere dagli umani, nascondendosi tra il verde dei giardini.

Con tutto il verde che si trova per il Regno Unito, non sconvolge per niente che il mito delle fate sia così popolare.

La storia di Elsie e Frances

Nel 1917, il mito delle fate sembrava non essere più un mito: due cuginette erano riuscite a scattare delle foto mentre giocavano con delle fate nel giardino dietro casa, presso il villaggio di Cottingley in Inghilterra. Elsie aveva 16 anni, mentre Frances solo 9. Ai tempi non esistevano filtri di Instagram o Photoshop, ma si usava una macchina fotografica a lastre: il padre di Elsie era un appassionato di forografia, tanto da avere una camera oscura in casa.

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La prima foto, Frances circondata dalle fate, 1917.

Elsie che gioca con uno gnomo alato, 1917.

Nelle foto sviluppate si potevano osservare chiaramente delle piccole creature magiche, delle ragazze eteree con tanto di ali che ballavano felici per il prato, ma anche uno gnomo alto almeno 30 centimetri!

Alla visione delle foto, il padre di Elsie proibì alle due cugine di giocare con la macchina fotografica, pensando che l’avessero modificata in qualche modo per ottenere quegli effetti strampalati; la madre di Elsie invece era convinta che le foto fossero genuine.

D’altronde, la signora era molto appassionata del mondo dell’occulto: mostrò le foto al pubblico nel 1919 durante un incontro della Teosophical Society a Bradford e le voci iniziarono a girare…

Sir Arthur Conan Doyle, da Sherlock Holmes alle fate

Giornalisti da ogni parte del Regno Unito si interessarono a queste strabilianti foto, perfino Sir Arthur Conan Doyle, lo scrittore di Sherlock Holmes, venne rapito dal loro realismo: secondo lui, non c’era più alcun motivo per dubitare dell’esistenza delle fate dopo quella prova fotografica.

A rinforzare questa teoria, furono anche le altre foto che vennero scattate tre anni dopo, nel 1920. Le due cugine si recarono sempre nel giardino dietro casa, producendo altre tre foto.

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La terza foto, Frances con una fata danzante davanti al viso, 1920.

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La quarta foto, Elsie con una fata, 1920.

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La quinta ultima foto, fate fotografate tra l’erba, 1920.

Doyle scrisse due articoli per il giornale The Strand al riguardo, che fece da base per il  suo libro The Coming of the Fairies (1922). Lo scrittore del detective più famoso al mondo era una grande appassionato di occulto!

Gli anni successivi

La vicenda andò scemando negli anni: non ci furono foto nuove e le due ragazzine erano ormai cresciute, andando a vivere anche all’estero. Durante gli anni ’70, si parlò nuovamente delle foto in TV per conto di un programma della BBC, dove Elsie affermò che si trattassero di foto frutto della loro immaginazione.

La confessione finale ci fu solo tra il 1983 e il 1985, quando le due cugine chiarirono il mistero delle fate prima in un articolo per la rivista The Unexplained, interessata a UFO, e ad avvistamenti paranormali e poi in televisione.

Elsie aveva ricopiato dei disegni da un libro per bambini su di un cartoncino, aggiungendoci delle ali; le mise in piedi con delle spille da balia per poi metterle in posa insieme alla cuginetta e scattare le foto. Confessarono di come inizialmente si fosse trattato di un gioco innocuo, diventato poi un caso mediatico più grande di loro. Quando venne coinvolto anche Sir Arthur Conan Doyle, a quel punto le due cugine erano troppo imbarazzate dal confessare: 

“Due ragazzine di un villaggio e un uomo brillante come Conan Doyle – oh beh, potevamo solo restarcene in silenzio.” Elsie nel 1985, in un’intervista per Arthur C. Clarke’s World of Strange Powers.

Elsie, la cugina più grande, ha poi sempre affermato di come si trattassero di semplici disegni fino alla sua morte nel 1988; Frances invece, credette fortemente nella quinta ed ultima foto (le fate danzanti nell’erba), ma  c’è da dire che Frances aveva solo tra i 9 e i 12 anni all’epoca, affezionata al gioco e alla magia che aveva creato con Elsie per combattere la noia pomeridiana.

Per Frances, le fate erano vere.

Finzione o realtà?

Con l’avanzare della tecnologia, non è stato difficile scoprire che si trattasse di falsi: le fate non esistono, la suggestione sì.

Sotto il nostro occhio moderno, è facile notare come le fate di Cottingley siano dei semplici cartoncini, tanto da chiederci come sia stato possibile prendere in giro così tanti esperti dell’epoca.

Ormai siamo circondati da fotocamere che riprendono la realtà, ma anche da professionisti che cambiano le regole della fisica contro ogni ragione: basta guardare gli effetti speciali di un film per rendercene conto.

All’inizio degli anni ’20 una semplice foto poteva solo rappresentare la realtà: oggi siamo più scettici di un Sir Arthur Conan Doyle. Basta mettere un filtro e via, siamo circondati da fatine, cuoricini, gattini e stelline, ma è tutta finzione e lo sappiamo.

Nessuno scriverebbe articoli al riguardo.

Oppure no?

Il Cottingley Pants, dove le due bambine hanno scattato la prima fotografia, foto di Paul Glazzard, CC BY-SA 2.0.

Che ci crediate o meno, la magia della natura di Cottingley è reale e porta via il fiato. Non è un caso che persone da tutto il mondo vengano a visitare il luogo per incontrare le famose fate.

Che anno fai? Come è organizzata la scuola

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All’università una mia compagna di corso che aveva frequentato il liceo classico, si trovava sempre a disagio nel sentir parlare di primo, secondo e terzo anno: per lei, il primo e secondo anno di liceo erano il quarto e quinto ginnasio. Ecco, se questo poteva sembrare complicato, non avevamo messo in conto  il sistema scolastico britannico.

La scuola in Italia

In Italia, per chi se lo fosse dimenticato, abbiamo:

  • la scuola materna o asilo (3 anni), dove ci passi le mattine e a volte anche i pomeriggi a giocare, disegnare e cantare canzoncine, di solito sotto Natale. Può capitare che ti tocchi interpretare con voce infantile il cespuglio, il pastore o perfino la luna, urlando robe del tipo io sono la luna ed illumino la notte, girando come un elicottero sul posto (riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è puramente casuale);
  • le scuole elementari (5 anni) dove vai fino agli 11, qui impari le basi come leggere, scrivere e le tabelline, maestre permettendo. Tanto tempo fa c’era l’esame di seconda elementare a fine primo ciclo, per poi passare al secondo ciclo e finire con l’esame di quinta (questo l’ho fatto pure io, classe 1993). Oggi non ci sono più, passi alle medie come se niente fosse, tanto che cambia;
  • le scuole medie (3 anni) che finisci a 14, dopo gite fuori porta e con gli ormoni impazziti, qui sei costretto a scegliere cosa fare dopo l’esame della terza in base ai tuoi interessi o a test attitudinali fatti con i piedi assieme a qualche professore invasato. A volte, i tuoi genitori sceglieranno per te oppure finirai in un istituto solo perché vicino casa;
  • la scuola superiore (5 anni), che può essere un liceo o un istituto tecnico o professionale, ci resti fino ai 19. Qui ti preparano a continuare a studiare o ti introducono al mondo del lavoro, fondi scolastici permettendo. A volte, è un miracolo avere la lavagna con gesso e cancellino, figurarsi quindi una lavagna elettronica o una televisione funzionante sulle ruote;
  • l’università, conosciuto anche come il magico mondo degli esami ed esoneri, delle e-mail senza risposta ai professori e dell’essere pendolare o studente fuori sede. Qui, prendi una laurea che poi potrà essere appesa ad un muro come un grazioso quadro dopo tre o cinque anni a seconda del tuo percorso di studi.

Okay, lo sappiamo tutti come funziona, ma all’estero? Come sono divisi gli anni? Fino a che età sei costretto dietro un banco di scuola? Mi sono chiesta se medie e superiori fossero accorpate tutte insieme nello stesso istituto perché mi è capitato di vedere dei bambini minuscoli indossare la stessa divisa di studenti alti 2 metri…

La scuola in Inghilterra

In Inghilterra la scuola è divisa in Keys Stage e a loro volta in Years, un sistema che permette allo studente di proseguire gli studi come meglio crede dai 5 fino ai 16 anni prendendo il diploma, il General Certificate of Secondary Education – GCSE.

Qui, può decidere se continuare a studiare per altri 2 anni e prendere gli Advanced Levels o A-Levels che sono richiesti per entrare all’università.

Ovviamente, esiste l’asilo nido e materna, che sono un anno ciascuno.

  • Nursery (asilo nido)
  • Reception (scuola materna)
  • Year 1 (5/6 anni)
  • Year 2
  • Year 3
  • Year 4
  • Year 5
  • Year 6
  • Year 7
  • Year 8
  • Year 9
  • Year 10
  • Year 11 – si prende il diploma GCSE (15/16 anni)
  • Year 12
  • Year 13 – si prendono gli A-Levels (17/18 anni)

La scuola in Scozia

In Scozia il sistema scolastico è simile a quello inglese, cambia la nomenclatura:

  • Playgroup (asilo nido)
  • Nursery (scuola materna)
  • Primary 1 (5/6 anni)
  • Primary 2
  • Primary 3
  • Primary 4
  • Primary 5
  • Primary 6
  • Primary 7 (11/12 anni)
  • Senior 1
  • Senior 2
  • Senior 3
  • Senior 4
  • Senior 5
  • Senior 6 (17/18 anni)

Praticamente, invece di contare gli anni dal primo al tredicesimo, in Scozia si divide in scuola primaria (Primary) e secondaria (Senior).

Gli studenti possono lasciare la scuola a 16 anni (Senior 4 o 5) per andare a lavorare o provare subito ad iscriversi all’università se hanno dei buoni voti, ma generalmente continuano fino al Senior 6 per prepararsi al meglio.

Al termine dei loro studi, ottengono lo Scottish Qualifications Certificate – SQC, che in base ai livelli corrisponde ai GCSE e A-Levels inglesi. In parole povere, sarebbe il diploma che prendiamo dopo l’esame di maturità.

A seconda della scuola ci sono delle materie da studiare obbligatoriamente e materie che gli studenti possono scegliere, proprio come nella saga di Harry Potter, no?

Le Case

E a proposito del nostro mago preferito, le case di Hogwarts non sono per niente un’invenzione della Rowling, anzi! Molte scuole in Gran Bretagna sono divise in houses dove vengono messi gli studenti, un po’ come quando noi veniamo messi nelle sezioni A, B, C, eccetera, eccetera.

I nomi variano dai santi, alle vie, alla natura. Per farvi un esempio, la George Heriot’s School nella Old Town di Edimburgo che viene considerata un po’ ispirazione per Hogwarts, ha 4 case:

  • Lauriston (colore verde, che prende il nome dalla via della scuola, Lauriston Place);
  • Greyfriars (colore bianco, che prende il nome dalla chiesa vicina di Greyfriars);
  • Raeburn (colore rosso, che prende il nome da uno studente famoso della scuola, Henry Raeburn);
  • Castle (colore blu, che prende il nome dal castello di Edimburgo che si trova proprio dietro la scuola in bella vista sulla collina, Edinburgh Castle, appunto).

Generalmente, le scuole organizzano gare sportive o musicali, per poi assegnare dei punti e premi; ci sono i prefetti e i caposcuola, con tanto di spille messe in bella vista sulla loro cravatta o colletto della divisa!

Che dire, pare proprio un altro mondo, eh?


Ho cercato di spiegare il tema nel modo più semplice possibile, giusto per dare un infarinata su come sia organizzata l’educazione in questo posto: spero di non aver scritto fischi per fiaschi.

In tal caso, mi scuso in anticipo, ed ecco, vi offro un tè.

Serie TV – Life On Mars (UK)

Questo sabato, parliamo di un’altra serie TV fantacientifica, probabilmente una delle serie TV che più mi sono piaciute in assoluto: Life On Mars (UK)!

Poster della Serie TV 

Life On Mars (UK) è una serie TV mandata in onda sulla BBC dal 2006 al 2007, costituita da due stagioni da otto episodi ciascuna. Creata da Matthew Graham, Tony Jordan e Ashley Pharoah, in Italia purtroppo non ha riscosso molto successo, ciò nonostante è stata riproposta qualche anno fa su Rai 4.

Il titolo riprende la famosissima canzone omonima Life On Mars di David Bowie che ovviamente fa da colonna sonora, assieme a tantissimi altri artisti del tempo.

Trama

Nel 2006, l’Ispettore Capo Sam Tyler (John Simm) della polizia di Manchester, è coinvolto in un brutto incidente d’auto e si ritrova catapultato nel 1973. Scopre che lavora sempre per la polizia della città, ma sotto il pressante sguardo dell’Ispettore Capo Gene Hunt (Philip Glenister). Lavorando a dei casi aiutato da una scienza molto limitata degli anni ’70, scontrandosi con i suoi colleghi retrogradi ogni giorno, Sam cercherà di capire se sia finito in coma o abbia veramente viaggiato nel tempo… Riuscirà a tornare a casa?

Am I in a coma or back in time?

Nella prima puntata di Life On Mars, Sam torna indietro nel tempo e si ritrova a fare i conti con il pericoloso omicida su cui stava lavorando nel 2006… e quello è solo l’ultimo dei suoi problemi! Il corpo di polizia di Manchester è molto diverso rispetto a quello a cui è abituato nell’era moderna: battute sessiste, maschiliste, mancanza di serietà, senza dimenticarsi poi del vizio del fumo (dopotutto siamo negli anni ’70!) e del problema della corruzione. Praticamente, il nostro protagonista deve combattere ogni giorno contro una cultura del tutto diversa dalla sua, incarnata fra tutti dal suo capo Gene Hunt.

E se poi pensiamo che quando si trova da solo nel suo piccolo e brutto appartamento, inizia a sentire voci che lo chiamano, medici e parenti che lo esortano a svegliarsi, beh, la situazione non è delle più rosee. Lo spettatore è incollato allo schermo che tenta di capire insieme a Sam cosa stia accadendo, passando da un caso all’altro, affezionandosi alla Manchester del ’73 nonostante la situazione sia del tutto surreale.

Life On Mars USA e Ashes To Ashes

Il successo della serie ha portato la ABC a riproporre la storia di Sam in un contesto Americano, nella New York del 1973. Il personaggio di Gene Hunt è stato interpretato dal grande attore Harvey Keitel (lo ricorderete come Mr. Wolf in Pulp Fiction) e si ripropone lo stesso rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo di stima, che si crea fra Sam e il suo capo. La serie ha avuto una solo stagione 2008-2009 e ha ripreso un po’ la trama delle puntate della BBC, riadattandole per un pubblico americano: per esempio, in una puntata dove si tratta di un caso riguardo delle risse in uno stadio durante una partita di calcio (molto in voga in Inghilterra of course), in America si è trattato di football. Perfino il finale è totalmente stravolto, proponendo una spiegazione diversa rispetto al coma o al viaggio del tempo…

In patria, dopo la chiusura di Life On Mars, sono stata prodotte tre stagioni di Ashes To Ashes dal 2008 al 2010 (sempre facendo riferimento alla canzone di David Bowie). Questa volta, la protagonista è Alex Drake (Keeley Hawes), ispettrice di Londra, che ha studiato il caso di Sam e viene colpita alla testa da un proiettile. A suo malgrado, viene catapultata negli anni ’80 ed inizia a lavorare con la vecchia squadra di Sam che è stata trasferita nella capitale.

Personalmente, ho amato la prima stagione di Ashes To Ashes nonché la più vicina a Life On Mars, che continua la ricerca fra la realtà e finzione, fulcro di queste serie.

Dateci uno sguardo!