Miss, posso andare al bagno? Invigilator all’attacco

Avevo accennato a come avrei preso parte ad un esame dall’altra parte della cattedra, giusto? Ecco, durante il training avevano accennato a come con molta probabilità avrei dovuto fare da cane da guardia ad un paio di ragazzini, non di più. 3, 4, massimo 5, toh.

Arrivo la mattina dell’esame bella ansiosa all’ufficio e la direttrice mi saluta e mi chiede il nome. “Ah, Laura, eccoti qui,” e punta il dito su di un foglio excel che ha sulla cattedra davanti a lei con tanti numeretti e nomignoli.

Vicino al mio nome ci sta scritto 20.

20 cosa? Caramelle? Patate? Si tratta di un punteggio? Wow, penso, come è alto, è il più alto di tutti, vedo solo 4 o 5 agli altri nomi…

“Devi andare in questa classe, è bella grande sai, hai 20 persone da invigilare :D”

La guardo.

Guardo il foglio.

Guardo di nuovo lei.

Ha gli occhi stanchi.

Pure io, non ho dormito tanto.

Mmm.

Laura. 20.

Ah.

Meno male che dovevano essere 4 o 5. Massì dai, 20 è pur sempre un multiplo di 4 o 5 no?

“Oh, va bene,” dico sorridente e affabile, da grande attrice premio Oscar, mentre dentro credo il mio unico neurone abbia commesso seppuku.

La direttrice mi consegna un bustone pesantissimo, un orologio da attaccare al muro perché la classe non ha i PC, mi dà pure un cartello gigante EXAM IN PROGRESS, e pure un’altra busta perché magari era poca la roba che avevo in braccio.

“Sai dove andare?”

“Mah, oddio, non sono tanto familiare di questo posto…”

“Dall’altra parte del palazzo 😀 buona fortuna.”

Good Luck.

Così, esco dall’ufficio mezza intontita ripensando a quel 20, ringraziando di avere un’ora abbondante per sistemare l’aula.

Mi perdo, ovviamente, quel posto sembra un labirinto.

Vago per l’edificio con ‘sta roba in braccio, mi affaccio in un corridoio, mi sento come Asterix e Obelix alla ricerca del lasciapassare A38. Qualcuno mi guarda curioso, vado alla reception dove il tipo non capisce che sono un Invigilator, pensando che io sia uno studente.

Gli mostro il mio bottino, indico col mento la busta.

“No, sono un Invigilator, devo andare in questa stanza, come ci arrivo?”

“Ma devi fare un esame?”

“Sì, ma non io, sono un Invigilator.”

“Ma a che ora?”

“Tra un’ora.”

“Hai un esame tra un’ora.”

Fisso il mio bustone e ripenso a come sia arrivata a questo punto, un po’ sconsolata. Comprendo perché non abbiano persone che vogliano fare da cani da guardia e abbiano chiesto a gente stolta come me.

“Okay, allora, vai dritta, gira a destra, vedi il bar, ecco, non lo guardare, sali le scale, poi a destra e vai dritta e segui il corridoio, ci arrivi. Chiedi al folletto magico la parola d’ordine, fa una piroetta su te stessa, salta su una gamba e apri la porta.”

“Ma quindi a che serve la parola magica?”

Non lo sapremo mai.

Arrivo all’aula, controllo che sia quella giusta, saluto due studenti ansiosi che vogliono iniziare al più presto, mi chiudo dentro e sistemo la classe alla meno peggio. L’orologio lo metto al muro e casca per terra, si frantuma in mille pezzi dopo nemmeno 10 minuti di onorato servizio: guardo nella bustona e ne ho un altro di riserva.

Qualcosa mi dice che non sia successo solo a me.


I 20 studenti hanno sì e no 18 anni ed alcuni mi trattano con una reverenza che mi fa sentire un professore. Mi guardo dietro le spalle, ma no, non c’è nessuno dietro di me con più autorità, in quel momento l’autirità sono io. Io. Una professoressa mi chiede un informazione prima di chiudere la classe al mondo intero e pure lei, mi parla con un linguaggio così ricercato e professionale che mi chiedo chi sia diventata nel giro di una notte.

Oh Povere anime.

Mi chiedono in mille di andare al bagno, ci vanno, aspettiamo, qualcuno sta morendo per l’attesa. Io pure, gli vorrei dire, ma in effetti meglio stare dall’altra parte che rispondere a chissà che domande e di chissà che materia.

Confisco un paio di bigliettini, ma erano solo fogli di carta senza niente scritto sopra, pare; un altro finisce la penna, un altro finisce il compito in 30 minuti, consegna e se ne va. Vorrei andarmene anche io ma non posso per ovvi motivi.

Passa un’ora in modo lento ed inesorabile; cammino un paio di volte su e giù, non so dove mettermi le braccia, quindi le incrocio, resto vicina a qualcuno che sembra voler fare il furbo, non fiata una mosca. Guardo fuori dalla finestra, i gabbiani starnazzano e tira vento, ma dentro quella classe si muore di caldo. In Scozia fa freddo, dicono, serve la giacca.

Piano piano sono sempre di meno in classe, prendo i loro compiti e se ne vanno. Scade il tempo, finiscono gli ultimi due e resto sola dentro la classe. Poggio i compiti, mi siedo sulla sedia e faccio un sospiro di sollievo: è finita. Guardo il soffito, mi pento di essermi messa una maglia pesante quella mattina.

Rificco a forza i compiti sudati dei ragazzi nel bustone, raccatto cartelli e orologi, prendo la mia borsa e attraverso l’edificio per riportare tutto dalla direttrice: questo è il momento in cui devi proteggere quei compiti con la tua stessa vita, che ne so, metti caso qualcuno ti prenda a bastonate perché vuole cambiare qualche frase o crocetta. Ma non c’è quasi nessuno in giro, i miei passi rimbombano nei corridoi derserti: le lezioni sono quasi finite per tutti.

“Oh, Laura, come è andata?”

Credo di avere la faccia sconvolta, più per la fame che per altro, “good, good,” rispondo con la voce roca.

Bene bene, che tradotto sarebbe li mortacci vostri.

Non mi aspettavo mica 20 persone sai, scherzo, mentre le consegno il bustone.

“Eh sì, arrivati a questo punto ci sono classi numerose a volte, prenotare le aule grandi poi è sempre un’impresa…”

Un altro collega arriva, sconvolto pure lui, e pure lui con un bustone in mano. Fare l’invigilator è uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare.

“Grazie mille per averci aiutato :D!”

Saluto tutti, esco, me ne vado quasi correndo. Chiudo la giornata con del bubble tea zuccherosissimo che resuscita il neurone morto quella mattina.

Bene.

Torno a fare lo studente ancora per qualche tempo!

Ai Confini della Realtà Universitaria

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“Le rocce si scioglieranno assieme al sole prima che io permetta l’imposizione delle tasse universitarie agli studenti di Scozia” Alex Salmond, ex-Primo Ministro della Scozia

No, non mi sono impazzita tutto insieme e mi sono iscritta ad un corso scientifico alla Heriot-Watt, tranquilli, sono sempre la solita fedele umanista: anche volendoci andare, capirei molto, molto poco.

Come accennato in un articolo precedente, Fidanzato inizia il suo corso all’Università qui ad Edimburgo. Sapevamo già cosa aspettarci: di cose ne avevamo lette a destra e a manca nel web, senza dimenticarsi dei fedelissimi feedback positivi su pagine social e quant’altro. Ma poi si sa, quando ti ritrovi davanti a certe realtà, fatichi sempre a considerarle tali, tanto da doverti pizzicare il dorso della mano e chiederti se in realtà tu sia finito in qualche sogno molto vivido.

Ma è davvero tutto vero?

Il primo giorno che ci siamo andati, dopo 40 minuti di viaggio in bus era una giornata uggiosa tipicamente scozzese: arrivati c’era un silenzio quasi innaturale, il vento che soffiava per ricordarti dell’estate che lì non era mai stata, il laghetto con le paperelle sguazzanti e gli scoiattolini che zompettavano intorno beati.

Signori, mi son sentita la sorella dark di Biancaneve.

Ancora intontiti dall’aereo del giorno prima, ce ne siamo stati a guardare la natura selvaggia di quel posto surreale: lo ripeto, c’erano degli scoiattolini, veri, non meccanici come i corvi della Torre di Londra a Doctor Who, dove lo sanno tutti che vanno a batterie.

Il lunedì seguente, quando siamo tornati per fare la tessera, l’aria era la stessa: pioggerellina che entrava da tutte le parti, penetrava nelle ossa, nel naso, tra i capelli, proprio quel tipo di pioggia che se può rovinarti la salute lo fa e con grande piacere.

La differenza, era che adesso c’erano tantissimi ragazzi che si spostavano da un dipartimento all’altro, chi intento a mangiare un tramezzino, chi occupato a parlare con il proprio connazionale fitto fitto in una lingua a me sconosciuta. Altri se ne stavano seduti sulle panchine di marmo con o senza ombrello (è un optional) a messaggiare o leggere il loro Kindle zuppo d’umidità.

Entrati nell’ingresso principale, c’era un’aria di accoglienza che ti faceva venire voglia di andare a fare l’universitario solo per il gusto di dire ne faccio parte anche io: divanetti colorati, poster, ragazzi e ragazze sorridenti ad accoglierti. Altro che la scuola di Paso Adelante, ma che ne sapete voi.

Come in Italia

Non ho potuto non ripensare al mio primo giorno alla Sapienza di Roma sei anni fa, il giorno in cui era Fidanzato a fare da accompagnatore: ero andata all’Orientamento per sapere di più del corso di Lingue, tornando a casa più confusa di prima.

Timida timida, mi avvicinai alla ragazza al banco dove con un pennarello avevano scritto su un foglio stampa A4 alla meno peggio “Lingue, Culture, Letterature e Traduzione”. Le feci vedere un foglio che avevo avuto qualche giorno prima, pieno zeppo di diciture strane e nomi mai sentiti di materie, non capendo nulla di come funzionassero gli esami: esami a scelta, esami da 6, da 12 crediti…

Era tutto nuovo.

Ai tempi, la mia idea era quella di continuare a studiare Inglese (ma va), assieme ad un’altra lingua, una lingua Scandinava che sarebbe dovuta partire forse quell’anno. Spoiler: non è mai partita, così che dovetti correre a segnarmi a Tedesco perché non c’erano stati abbastanza iscritti.

Non vi dico la delusione.

Comunque sia, chiesi alla ragazza la differenza fra i vari esami da 6 o 12 crediti di Inglese, con tanto di foglio in mano: lei lo prese, lo guardò con sguardo contrito e poi se ne uscì fuori con questa frase.

Me la ricordo bene, perché fu del tutto inaspettata.

“Ma perché scusa non prendi un’altra lingua come Russo? Ci sono un sacco di persone che fanno Inglese.”

Rimasi impietrita, stile cerbiatto davanti alla macchina: il tono inquisitorio di quella ragazza sconosciuta che doveva essermi d’aiuto, mi mandò solamente più in crisi.

“Ma veramente a me piace l’Inglese…” Dissi, sentendomi pure un po’ in colpa nel risponderle con una tale eresia.

Tornai a casa su un treno-carro bestiame, in piedi per un’ora buona a fissare la porta dello scompartimento davanti a me, chiedendomi che cosa diamine stessi facendo.

Welcome

Mi è venuto da ridere nell’assistere a scene completamente diverse alla Watt University: nessuno se ne è uscito fuori dicendo, ma perché fai ‘sta roba, ma perché non fai altro?Nessun tono impertinente, nessun giudizio: solo tanta accoglienza e disponibilità.

C’erano alcuni stand dove poter chiedere informazioni con tanto di caramelle omaggio: knock yourself out mi è stato detto, nonostante non fossi io la studente.

La settimana dopo, aspettando un’oretta che la prima lezione finisse, mi son potuta sedere dove volevo, senza nessuno che mi chiedesse del perché mi trovassi lì in cagnesco o perché osassi occupare un prezioso posto dell’Università con il mio sacrilego corpo.

La cosa ancora più sorprendente? C’era pure il sole.

L’Università è un investimento nel tuo futuro, non dovrebbe essere una palla al piede che ti tiene fermo in solo posto, impoverendoti e succhiandoti la vita fino al midollo.

Bisogna davvero dirlo: a volte la realtà supera perfino il migliore dei romanzi di Fantascienza.

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Knock yourself out!

La scuola dei tempi moderni

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Si deve imparare, non per la scuola, ma per la vita.

Ho 3 anni, vado all’asilo e mi piace. Dipingo con le dita un grande sole giallo e rosso, poi facciamo una torta di pasta di sale e sopra ci metto tre candeline finte. Una, due, tre, puf, buon compleanno! Con i bambini mi trovo bene, facciamo tanti giochi diversi: nascondino, acchiaparella, un due tre stella, il lupo mangia frutta, guardie e ladri… Sono bravo a fare il ladro perché corro veloce veloce e non mi prende mai nessuno. Le maestre sono simpatiche e ci fanno giocare tutti i giorni. Qualche bambino piange perché vuole tornare a casa e spintona la maestra, ma lei non è cattiva e lo rassicura. Un’altra maestra invece urla e sbraiata: i giorni in cui c’è lei resterei a casa, ma se faccio il bravo, non mi sgriderà.

Un giorno una mamma entra in classe ed è lei ad urlare alla maestra, mentre stiamo colorando dei dinosauri sui nostri quaderni; il giorno dopo quella maestra non la vediamo più.

Ho 6 anni ed inizio ad andare alla scuola elementare. Mi tremano le gambe il primo giorno ma mi vado a sedere al mio posto vicino a un bambino che conosco: giocavamo insieme all’asilo, quindi è un mio amico. Non sono da solo e va bene così: siamo 23 bambini. La maestra entra in classe e tratteniamo il respiro, ma lei sorride ed è buona, ricorda un po’ una mamma. Ci insegna tante cose: l’alfabeto, le stagioni, l’orologio e anche tante canzoni! La mattina entra con lo stereo e mette la cassetta così impariamo anche i colori in Inglese. Uno dei bambini non è tanto bravo, fa fatica a imparare a leggere e sul quaderno ci sono tanti segni con la penna rossa della maestra. Sbagliando si impara, gli dice.

Durante una festa di compleanno, sento le mamme che parlano di come il papà di quel bambino si sia lamentato con la preside di quella maestra per poi portarlo via. Adesso siamo 22 in classe e c’è un banco vuoto in più.

Ho 12 anni e vado in prima media: ho lasciato tutti i miei compagni di classe delle elementari per andare ad una scuola dall’altra parte della città. Mi è dispiaciuto tantissimo, ma per mamma adesso è più comodo venirmi a prendere perché è vicino all’ufficio dove lavora. Per fortuna mi ambiento quasi subito e ad ottobre mi comprano anche un cellulare fighissimo, un Nokia 3310: posso giocare a Snake e mi sento una star in classe. La professoressa di matematica è severa, ma insegna bene la sua materia: quando entra in aula, scende il gelo. Per l’estate ci fa comprare un libro delle vacanze con milioni di problemi da risolvere.

Quando ci rivediamo ad ottobre, solo in tre li hanno fatti tutti: io ne ho lasciati una decina, ma proprio non ci sono riuscito. Vengo a sapere che un mio compagno di classe non ha comprato il libro ed è andato in Croazia in vacanza, senza nemmeno una penna a sfera per scrivere 2+2. La professoressa chiama la madre per parlarci, ma lei non si presenta neppure al colloquio. Arriviamo tutti in terza media, qualcuno con degli esercizi in più sulle spalle.

Ho 15 anni ed inizio il Liceo: ho scelto il Liceo Scientifico e questa volta finisco in classe con qualcuno delle medie. La professoressa di Italiano è una tosta, ma anche molto creativa: le piace far scrivere poesie agli studenti e così ogni volta ci dà un tema da sviluppare a casa. Io sono negato, ma ci provo lo stesso, tanto non saranno mai peggio di quelle degli altri miei amici; scoppiamo a ridere e ci divertiamo. Un giorno, la professoressa ci dà il tema dell’onestà. Quando leggiamo i nostri componimenti, una ragazza spicca fra tutti: sembra scritta da un’altra persona. La professoressa si complimenta e le prende il foglio con su scritto la poesia.

Il lunedì dopo, la professoressa è su tutte le furie: a quanto pare, quella ragazza ha copiato la poesia prendendone una sul web. Non ci credo e guardo la mia compagna di classe a bocca aperta: non muove un muscolo e fissa la prof con un’aria di sfida.

Durante ricreazione, due ore dopo, sono nascosto sotto le scale di emergenza con due mie amici a fumare una sigaretta; stiamo parlando del più e del meno, quando si sentono delle urla provenire dal secondo piano. Non siamo i soli ad essercene accorti, perché l’intero cortile adesso si sta muovendo verso quel frastuono: vedo la mia professoressa di Italiano contro un muro, un uomo che le urla le peggio cose in faccia ed è arrabbiato, così arrabbiato, che ho quasi paura che le possa fare del male. Chi è lei, come si permette di dare della bugiarda a mia figlia! La mia prof è sconvolta.

Ho la triste conferma, solo quando il bidello riesce a mandarlo via, che quel tipo è il padre della mia compagna di classe, sì, proprio quella che ha copiato la poesia. Da quel giorno in classe non scriviamo più poesie: seguiamo il programma sul libro e la professoressa ha perso un po’ del suo entusiasmo.

Mi cade la penna per terra e quando mi giro, guardo quella ragazza messaggiare sul suo cellulare come se niente fosse: sa di essere intoccabile. Suo padre la difenderà sempre, qualunque cosa faccia.